«Ho visto tra il rovo e la siepe agitarsi l’ombra inquieta di un orribile animale mezzo uomo e mezzo poeta». Questo scriveva, nel 2008, Antonio Baglivo in una di quelle preziosità che chiama opera-libro, in cui tutta la spiegazione, di una immagine notturna di un rinoceronte (forse) in contrapposizione al profilo dell’artista estatici sotto un cielo stellato, era affidata all’introduzione di Francesco D’Episcopo, tuffatosi negli “specchi di Narciso”, il quale «non si preoccupa di nulla e di nessuno, invaghito di un’idea che non riesce a distinguere e separare bellezza e bruttezza». Un rincorrersi senza fine, un «intrecciarsi di segni e di parole – ricorda il poeta Gerardo Pedicini nella postfazione di “Teca Mundi”, mostra per una ricerca di tracce di lettura dell’opera di Baglivo – che chiedono una risposta, ma questa resta sempre sospesa: ora a favore dell’immagine, ora a vantaggio del testo».
Una indagine dopo decenni non ancora esaurita; anzi sembra rilanciare certe domande, certe inquietudini, certi tormenti che, alla fine, appartengono esclusivamente a quello “orribile animale mezzo uomo e mezzo poeta”.
Una ricerca che in questi giorni (sino al 31 agosto prossimo) è in esposizione nell’ampia sala-ingresso dell’Archivio di Stato e resta a disposizione di quanti vorranno non interrogare le opere ma interrogarsi di fronte alle opere di Baglivo. Nelle venti bacheche sono elencati i lavori, i tormenti, le intimità artistiche, quei segni arcaici della mente che Antonio Baglivo ha realizzato, accumulato, conservato in decenni di riflessioni, meditazioni, per poi riscoprirli, come nel caso di questa mostra anche se, alla fine, riuscirà ad occultarli di nuovo per continuare la personale ricerca. Di cosa? Ed è questo l’interrogativo insito già nel titolo della mostra: “Nostoi” il ritorno, secondo il vocabolario greco, riferentesi a quei poemi epici dei Greci reduci da Troia. Da qui quella sorta di sottotitolo “l’antiulisse” a compimento di spiegazione di un inesistente viaggio sul mare delle incertezze, scrivendo, da navigatore solitario, un ipotetico diario di bordo.
Protagonista è lui: Baglivo-Narciso che racconta i suoi ultimi trent’anni (?) di «entomologo dilettante – scrive in una breve nota di presentazione – cartografo, esploratore, astronauta impegnato in viaggi verso terre estreme e misteriose. Terre sommerse che affiorano sotto il pelo dell’acqua, cieli pietrificati, terre di confino, oscure stanze dell’afasia, mari amari e deserti ma anche oasi rigeneranti in cui la leggerezza del gioco e il disincanto dell’ironia aiutano a stemperare la fatica dello “scavo”».
Non è nuovo a queste antitesi intimamente artistiche, ossimori odissei: il suo viaggio è punteggiato di vari appuntamenti come “Altre terre” o “Rosso oltremare”, “Katakatascia” e “Guyot” per giungere alle quasi contemporanee “Le stanze dell’afasia” e ad “Anima prima”.
In ordinata sequenza di cicli di lavoro “organici e conseguenziali a partire dagli anni Novanta” Baglivo ha messo in esposizione libri d’artista in copia unica, ibridilibri e oggetti in forma di libro oltre ad opere su carta, collages, tecniche miste e quelle tavole originali di un “ibridofumetto” inedito, composto di immagini e frasi all’apparenza con nonsenso, accanto a grugniti, suoni indecifrabili che molti chiamano “onomatopeici”, ma che è più bello indicare come “armonie imitative”. Una sequenza di pagine, “gocce di pensieri che cadono sul foglio e si mescolano al nero di china”. Così l’humm dell’uomo si alterna e mescola al Wow della scimmia, al bla…bla…bla…bla… del rinoceronte, o se vogliamo del “rinonarcissus ocellatus”, a richiamo di D’Episcopo. Ammonisce, Baglivo, in una delle pagine dell’ibridofumetto: «Ecco cosa succede quando si è corrotti dall’utopia di un pensiero non ordinario…». Non a caso l’autore, “mezzo uomo e mezzo poeta” cita un ipotetico Jehan Mandeville o, se vogliamo, Jehan a la Barbe artefice del trecentesco “Voyage d’outre mer”, viaggio per mezzo mondo orientale, inventato, ritenuto anche apocrifo che, però, fu per lungo tempo ritenuto reale e che influenzò non poco viaggiatori successivi come lo stesso Cristoforo Colombo; né sono peregrini quei ritagli di note carte da gioco che riportano alla mente i mitici, egizi libri di Thot cui fece riferimento il massone francese Antoine Court de Gèbelin per la lettura dei suoi tarocchi.
«Lascia stare… non è il caso di insistere. Torna nel tuo mondo signor Mandeville» annoterà Baglivo nelle ultime pagine di questo strano fumetto di pensieri e immagini in libertà, dove passato e presente si confondono in modo emblematico di uno stato d’animo intimamente alla ricerca di “un luogo familiare. Ho l’impressione di esserci già stato”.
Riflessione quasi finale, il belliziano Antonio Baglivo scrive: «Prima o poi troverò il coraggio di staccarmi da tutto questo e mi deciderò finalmente a prendere il mare». Lo farà? Un interrogativo che lascia più dubbi che certezze.
In conclusione bisogna convenire con quanto, tempo fa, scriveva dell’uomo-poeta Francesco D’Episcopo (e lui di queste specie è attento studioso): «Alla fine sono due mondi a confrontarsi, nel miraggio di uno sguardo possibile, che salva l’universo dalla sua fine. Non è poi questo il fine, primo e ultimo, dell’arte?».
Vito Pinto