Quanti pasti avevano consumato col Maestro, sempre occasione per apprendere qualcosa di nuovo, anche se sovente i nemici ne traevano pretesti per reiterare le critiche al Nazareno. L’ultima volta Gesù aveva accompagnato la distribuzione del cibo con parole di commento mai pronunziate prima. Tommaso non riesce a cancellare dalle orecchie l’eco di quelle espressioni. Il Maestro aveva messo in relazione col suo corpo, vale a dire con se stesso, il pane dato ai discepoli; con parole analoghe aveva fatto passare il calice e nell’offrire il vino aveva di nuovo fatto riferimento a se stesso[1]. Era stata una cena carica di significati, rimarcati da un clima speciale. In particolare, Didimo ricorda la sensazione di dolore per una incombente separazione, anche se Gesù non aveva cessato di annunciare, fiducioso, un futuro pieno di gloria, promettendo la sua presenza dovunque sarebbe stato spezzato il pane nel suo nome, impegno di comunione con Dio, nuova alleanza, il cui compimento sarebbe avvenuto alla fine dei tempi. Tommaso è ancora confuso quando evoca parole e gesti. Giovanni cerca di consolarlo invitandolo a riflettere sull’eventualità che Gesù abbia voluto conferire alla sua morte un significato salvifico, dando pieno contenuto alla proclamazione del Regno di Dio. Tommaso non ribatte, anche se sembra annuire; vorrebbe rispondere al sorriso con un sorriso, ma è bloccato dall’immagine del crocefisso che lo perseguita. Quelle piaghe e la ripugnanza di quella morte lo fanno precipitare di nuovo nello sconforto.
Giovanni richiama l’esperienza conviviale: Gesù ha trasformato in insegnamento e in comandamento il gesto rituale della lavanda dei piedi[2]. “Ma si tratta innanzitutto di una prassi d’igiene.” Esclama il discepolo immerso nei suoi dubbi. “Le strade polverose impongono di lavarsi o farsi lavare i piedi spesso”. “E’ vero, questa è la tradizione”. Conviene Giovanni. “Ma Gesù, partendo da essa, ha fatto qualcosa di più, come puoi dedurre dal colloquio avuto con Pietro. Com’è capitato altre volte, quando Gesù voleva insegnare qualcosa di nuovo ha sempre giocato a livelli diversi con gli interlocutori, in questo caso Simone che, come il solito, non ha saputo controllare l’irruenza del suo carattere e nella lavanda dei piedi pretendeva di cogliere soltanto l’aspetto esteriore e profano. Invece il Maestro ha spiegato il significato di quel gesto, evocatore di una realtà più profonda. Gesù ha lavato anche i tuoi piedi, non ti dice nulla tutto ciò?”.
Tra i due continua la discussione com’era avvenuto durante quella notte. Troppo eccitati per andare a dormire si recano al Getsemani. Il podere dove Gesù si era diretto è situato nei pressi del viottolo che vi converge e consiste in un giardino senza mura collocato ai piedi del monte alto circa 800 metri. Delle molte viuzze che si arrampicano verso la vetta, quelle a est vanno in direzione del deserto della Giudea. I due conoscono bene il sentiero che si dipana a destra; infatti, da qui si giunge, dopo circa due chilometri, a Betania, ove Gesù era solito alloggiare presso gli amici Lazzaro, Marta e Maria.
Tommaso, con evidente concitazione, chiede a Giovanni perché il Maestro si fosse fermato e non avesse proseguito. Si sapeva del tradimento di Giuda grazie agli amici nel Sinedrio; a Betania avrebbe trovato conoscenti affettuosi e fidati. Giovanni risponde ricordando che durante il ministero Gesù si era dovuto confrontare con critiche e gesti di cordiale amicizia; in effetti egli rimaneva solo; perciò, quando sentiva il bisogno di colloquiare con Abba, per Lui non meno importante della sollecitudine verso gli uomini, non faceva concessioni. Da sempre, ricorda Giovanni, quello che non poteva fare di giorno, lo riservava di sera, di notte o di mattino presto: per questo motivo quella notte non si era diretto a Betania. Soprattutto in quel frangente egli aveva bisogno del colloquio con il Padre in uno spazio intimo e protetto.
In cammino verso il Getsemani, i due apostoli pensano a quanto è avvenuto in quel luogo qualche giorno prima. Il fardello delle esperienze passate pesa sul loro animo; risentono ancora della stanchezza che si era impossessata di loro fin dallo scorso venerdì. Tommaso ricorda che il piccolo gruppo camminava in silenzio e a capo chino; molti apparivano sconcertati, altri sicuramente depressi. Nella mezz’ora necessaria per giungere alla meta tutti riandavano all’animata conversazione durante la cena; soprattutto non riuscivano a dimenticare la predizione dell’eventuale defezione quando Gesù aveva asserito
Il gruppo procedeva soltanto apparentemente unito; in effetti, ognuno era solo con se stesso. Non riuscendo a parlare, tutti erano precipitati in un grande silenzio; a generarlo era l’attesa spaventata, l’angoscia per un ignoto imminente, nonostante che, nel precederli, Gesù li incoraggiasse. Egli aveva fretta di rimanere solo, ma continuava a stare in mezzo a loro perché li vedeva così timorosi. In quel momento erano un vero intralcio per lui, che aveva già iniziato un personalissimo dialogo col Padre. Gesù li aveva invitati a vegliare e pregare, a restare a lui vicini; stranamente sollecitava consolazione perché sentiva il cuore pieno di angoscia. Ma le sue parole si erano disperse nella fredda oscurità di una notte di tregenda. Aveva chiesto loro di rimanere nei paraggi mentre si allontanava un tiro di sasso perché sentiva il bisogno di leggere in solitudine nel suo animo, ma con loro nei pressi a vegliare in preghiera[4]. Per una volta aveva chiesto di essere generosi nei suoi riguardi e non addormentarsi, anche se era notte fonda e il vino, il sonno e il freddo fuori e dentro nel cuore rendevano ardua la veglia. Si alzò per svegliarli, ma non ricevette comprensione, soltanto le loro proteste, non a parole, ma con le palpebre che nascondevano occhi bovini, impastati di stanchezza e non disposti a compatire. Avevano scelto di rifugiarsi nel sonno e nell’incoscienza per non essere testimoni del dramma interiore che faceva sanguinare il Nazareno. Egli rimase solo e al freddo, accentuato dal sudore ghiacciato e appiccicoso che gli rigava il volto, scendeva sul collo e gli impastava la schiena[5]: un sudore sporco di polvere e rosseggiante per lo spavento, come Tommaso aveva intravisto nel dormiveglia. Il Maestro non riuscì a trattenere un grido, subito soffocato per la capacità di controllare i sentimenti e far trionfare la sua coscienza filiale, rimasta terribilmente lucida nel percepire quello che stava per accadere. Intanto, i discepoli, che egli aveva sempre chiamato amici e mai servi, continuavano a sonnecchiare, come tanta buona gente che riesce a chiudere occhio anche quando si sente posseduta dalla tristezza.
Il viso dei due amici apostoli si riga di lacrime perché ricordano il combattimento spirituale di Gesù nel Getsemani: per il Maestro era arrivata l’ora della grande tentazione. Avrebbero voluto continuare a discutere, ma per la stanchezza interiore, a causa delle tante emozioni patite in questi giorni, i due si addormentano; ma a impadronirsi delle loro stanche membra non è un sonno ristoratore. Un’idea fissa trasforma in incubo i loro sogni.