Pur essendo uno dei vescovi italiani più importanti del secondo dopoguerra, mons. Enrico Nicodemo non ha goduto di grande fortuna storiografica. I lavori a lui dedicati, infatti, si contano sulle dita di una mano. Dal volume pionieristico curato nel 1989 da Andrea Riccardi, incentrato sul tema Un vescovo meridionale tra modernizzazione e concilio, al Diario dell’arcivescovo, edito nel 2003 a Bari per la curatela di Francesco Sportelli, che propone l’elenco dettagliato dell’agenda istituzionale del Nicodemo barese, fino al più recente saggio di mons. Filippo Ramondino, che ricostruisce gli anni del suo primo incarico vescovile nella difficile Calabria del dopoguerra (Enrico Nicodemo. Vescovo di Mileto 1945-1953, 2015), l’attenzione degli studiosi si è portata esclusivamente sull’attività episcopale, soprattutto ai circa vent’anni trascorsi sulla cattedra di Bari.
Solo nel saggio Luci di un’anima, curato quasi trent’anni fa da mons. Luigi Tancredi, si tentava una ricostruzione complessiva del personaggio che non escludesse la sua formazione e la sua esperienza sacerdotale. Quel volume però era basato più sui ricordi personali dell’autore e sulle testimonianze di quanti avevano conosciuto Nicodemo che su una base documentaria, pur segnalandosi per la capacità di porre in risalto la complessa personalità e l’intensa attività del biografato.
Questo episodico interesse per mons. Nicodemo evidenzia la mancanza di un discorso scientifico ampio ed esaustivo su una figura di vescovo e sacerdote che ha attraversato gli anni cruciali dello scorso secolo e la necessità di approfondirne la conoscenza su basi documentarie.
Il libro di Manlio Morra cerca di riaccendere l’interesse su don Enrico puntando i riflettori dell’analisi storiografica su un periodo del tutto misconosciuto: i quasi vent’anni della sua attività di sacerdote nell’allora diocesi di Capaccio-Vallo (oggi “Vallo della Lucania”).
Dall’ordinazione presbiteriale, nel luglio 1928, a quella episcopale, nell’aprile 1945, entrambe svoltesi nella cattedrale di Vallo, trascorrono diciassette anni di un’attività pastorale e sociale così intensa e ricca di impegni ed esperienze da far ritenere quella diocesi la “culla del suo episcopato”, come si espresse del 1973 mons. Biagio D’Agostino, allora vescovo di Vallo.
I due ordinari succedutisi in quegli anni, Cammarota e De Giuli, ne riconoscono da subito le capacità e la serietà, affidandogli via via gli incarichi di direttore del Bollettino diocesano, di insegnante di religione nel locale ginnasio dopo l’avvenuta Conciliazione, di teologo del capitolo cattedrale, di responsabile dell’ufficio catechistico, di assistente della giunta di Azione Cattolica e, soprattutto, quelli di Delegato e Vicario vescovile.
Dall’analisi condotta dall’autore risulta che le sue capacità direttive e organizzative, nonché la sua cultura e il suo rigore, lo fanno apparire in alcune fasi un “quasi vescovo”. Locuzione con la quale s’intende anche l’abilità di sostituire del tutto il suo presule, come accade per diversi mesi nel 1934 durante l’episcopato di Cammarota, o di gestire in piena autonomia le attività di curia, come con De Giuli durante gli anni della guerra.
Il suo successore nell’ufficio di teologo del capitolo, mons. Rocco De Leo – evidenzia l’autore – scrisse, per esprimerne le qualità umane, che don Enrico “aveva una forza interiore al di là della normale misura”. Forza che si esprimerà al suo massimo livello durante i decenni di episcopato, ma che era già in piena evidenza negli anni giovanili.
È tale caratteristica di essere, per molti aspetti, un giovane già maturo e consapevole dei suoi mezzi, capace di mettere a frutto rapidamente le sue esperienze, a rendere questi anni formativi e di preparazione non meno interessanti di quelli successivi al ’45. Anzi, questo periodo sembra, in larga misura, poter rendere conto di molte scelte compiute da vescovo. mons. Nicodemo, infatti, porta con sé, a Mileto prima e a Bari poi, le tante esperienze fatte a Vallo e nella sua vasta e complessa diocesi, soprattutto nel campo della pastorale sociale dove aveva agito in maniera energica e innovativa.
Nel saggio in oggetto, tali esperienze appaiono in tutta la forza dei loro contenuti e sono riassumibili nell’impegno di “riformare la pietà popolare”, di intervenire cioè sui modi di manifestare e intendere la propria fede da parte delle comunità locali. Modi intrisi – secondo il giovane teologo – di sentimentalismo e materialismo, chiassosi e superficiali, più attenti agli aspetti esteriori e coreografici che a quelli intimi e di raccoglimento. Pietà che esprimeva una religiosità – era ancora la convinzione del nostro – venata di superstizioni.
La riforma passava attraverso un’intensa opera di pedagogia religiosa, fatta soprattutto di una sistematica espansione dell’insegnamento catechistico nelle scuole, nelle parrocchie, in ogni ambiente ecclesiale, e della promozione dell’Azione Cattolica in ogni comunità locale, perché considerata il migliore strumento per trasformare l’ambiente religioso parrocchiale.
Non a caso, don Enrico negli anni vallesi è posto a capo delle strutture curiali che si occupano del catechismo e dell’Azione Cattolica. A lungo è assistente della Giunta diocesana di AC e si occupa della diffusione di quella che allora era l’unica organizzazione cattolica permessa dal regime fascista.
Su questo tema, il saggio di Morra è assai interessante. Nel tentativo di dare il giusto rilievo al ruolo fondamentale di Nicodemo per l’Azione Cattolica locale, l’autore ricostruisce per la prima volta la storia diocesana di questo movimento laicale tra gli anni Venti e gli anni Quaranta. Scopriamo così, nei limiti della scarsa documentazione superstite, l’importanza dell’AC nelle diocesi di Capaccio-Vallo e di Policastro, le sue origini e il suo graduale sviluppo nelle numerosissime parrocchie, l’attività di tanti sconosciuti protagonisti in questo campo, sacerdoti e laici, le rilevanti funzioni socio-culturali svolte dalle associazioni giovanili, soprattutto femminili costituite in numero crescente fino agli anni del conflitto. E scopriamo anche il rilievo che sia Cammarota sia De Giuli danno al movimento laicale in chiave di difesa del cattolicesimo dall’avanzante secolarizzazione, di controllo dei culti, dei riti e dei parroci locali, di animazione sociale delle piccole e povere comunità diocesane. È uno spaccato emblematico della storia dell’Azione Cattolica meridionale in questi decenni, in gran parte poco indagata.
Convinto della bontà del programma dell’Azione Cattolica, il giovane teologo ne diventa un appassionato promotore, fino ad essere colui che ne permette la rinascita dopo la crisi del ’31, la decisa affermazione durante l’intero decennio e la continuità della presenza negli anni della guerra.
Il saggio dà conto anche di quest’ultimo periodo, quello più difficile attraversato dalla diocesi e quello in cui don Enrico è chiamato a tenere l’ufficio di vicario generale. Sono gli anni di maggiore collaborazione col vescovo, di condivisione di obiettivi e strumenti d’azione. Anni in cui la pastorale non cambia e le linee di continuità sono ben evidenziate dal contenuto delle lettere del vescovo e dalla gestione degli affari di curia del vicario. Nicodemo è vicino a De Giuli anche nella drammatica estate del ’43 e nei difficili mesi che seguono allo sbarco alleato, quando la diocesi è attraversata dal fronte e vive i problemi causati dai bombardamenti, dalla penuria alimentare, dal caos politico.
L’autore ben evidenzia come, negli ultimi anni di permanenza in diocesi, don Enrico, da un lato, agisca per dare continuità alle linee pastorali già tracciate in precedenza, e quindi non far disperdere le esperienze in ambito catechistico e di Azione Cattolica, dall’altro, per l’aggiornamento della sua cultura, sia già proiettato nel dopoguerra e sui problemi posti dai nuovi assetti politico-sociali che andavano prospettandosi.
Il rilievo che darà, sia in Calabria che a Bari, all’AC e alla pastorale catechistica, intesi entrambi come partecipazione del popolo a un cattolicesimo sociale attivo e consapevole, trae le sue origini proprio dalla ricca e assai problematica esperienza vallese.
Pur attento all’analisi di fatti e persone, alla ricostruzione cronologica e tematica degli impegni di Nicodemo e quasi filologica col ricorso continuo ai suoi scritti, il lavoro di Morra paga lo scotto di una carenza documentaria, peraltro avvertita con sofferta consapevolezza dallo stesso autore, riguardante le attività di curia del periodo oggetto della sua ricerca. Carenza ascrivibile non a lui ma all’incuria archivistica dell’ambiente e alla quale si rimedia col ricorso alla pubblicistica coeva, in particolare al Bollettino diocesano, pubblicato dalla curia vescovile e diretto proprio da don Enrico, e a Il Calpazio, bollettino della parrocchia di Capaccio, tra le più attive nel campo dell’Azione Cattolica.
L’autore mostra come l’utilizzo di queste fonti, attraverso una puntale e sistematica ricognizione, possa rivelarsi prezioso ai fini della ricostruzione storiografica, affiancandosi ai documenti d’archivio e integrandone efficacemente i contenuti. L’ampia sezione di Appendici è formata in prevalenza da scritti del teologo tratti da queste fonti e costituisce un valido supporto ai temi trattati nel saggio. Vi si legge la voce diretta del giovane teologo e la sua precoce maturità sia riguardo ai contenuti affrontati che allo stile preciso, rigoroso e non privo di fascino.
In definitiva, il volume qui analizzato si pone come tappa importante nel complessivo lavoro di ricostruzione storiografica di una figura di primo piano dell’episcopato nazionale del Novecento e, non ultimo, contribuisce a sfatare il mito completamente negativo di una diocesi arretrata nelle sue strutture, marginale nella sua cultura, priva di uomini capaci di testimoniare la propria fede in maniera attiva e consapevole.