Nei paesi della diocesi dopo la Grande Guerra mutava lentamente il panorama politico. Accanto alla democrazia liberale nittiana, un ruolo importante fu svolto dalla democrazia costituzionale legata a Giolitti e della quale il capo riconosciuto era l’on. Camera. Il sistema proporzionale aveva costretto i politici locali, dominatori nei vecchi collegi uninominali, ad allearsi. Non si ebbe, perciò, la temuta affermazione di socialisti e di popolari, come nel Centro-Nord. Durante le competizioni elettorali i gravi problemi e gli scontri politici nazionali nel Cilento trovarono pallidi riflessi; la lotta continuava ad essere incentrata sullo scontro tra candidati. Il suffragio universale si misurava con una struttura sociale e una maturazione politica ancora antiquate; la rottura dei tradizionali equilibri non avviò l’atteso rinnovamento in una zona contrassegnata da arretratezza economico-culturale. L’intreccio, talvolta perverso, tra consenso clientelare e paternalistico ed il ruolo svolto in sede parlamentare e nazionale rimase una costante. L’avvento dei partiti di massa – popolari e socialisti – modificò solo parzialmente il quadro politico e di ciò profittò il fascismo, che in breve tempo assorbì i centri di potere rimasti pressoché inalterati nel periodo giolittiano.
Nel Cilento il fascismo s’affermò non per la vittoria dello squadrismo agrario contro le organizzazioni socialiste e cattoliche, ma per la debolezza della vita civile e il conformismo trasformista della classe dirigente, conquista tardiva perché la situazione socio-politica ed il sistema di potere risultavano molto più conservatori rispetto al Centro-Nord della penisola. Di conseguenza, nei paesi della diocesi il fascismo si radicò nell’ordine sociale come una gerarchia di poteri e di status, senza determinare rinnovamenti e trasformazioni. Pur non fidandosi della vecchia classe dirigente, il partito la utilizzò per manipolare gli orientamenti delle masse e assicurare consenso al regime. Non meravigliava, perciò, se l’azione di vescovi illuminati e sensibili a idee e programmi provenienti da zone socialmente ed economicamente più evolute risultasse vana e perdente. Del resto, mancavano i prerequisiti culturali, economici e sociali che avevano consentito la costituzione nella regioni più evolute d’istituzioni impegnate non solo nei tradizionali compiti caritativi, ma anche nell’assicurare a contadini, operai ed artigiani l’assistenza necessaria per migliorare la condizione socio-economica.
La Grande Guerra segnò un significativo passo nella collaborazione tra gerarchia e governo per il rafforzamento del fronte interno tramite una serie d’iniziative per l’assistenza morale e materiale delle famiglie dei soldati. La coralità degli sforzi fu premiata e la sera del 3 novembre 1918, appresa la notizia dell’occupazione di Trento e dello sbarco degli Italiani a Trieste, il popolo si radunò nella cattedrale di Vallo e si riversò nelle strade per celebrare la vittoria. Le manifestazioni di giubilo furono solennizzate il 5 novembre con un Te Deum di ringraziamento, al quale presero parte vescovo, capitolo, autorità civili e militari; corale dimostrazione di giubilo per le vie della cittadina guidata da mons. Francesco Cammarota, nuovo vescovo di Capaccio-Vallo. Il presule era nato a Maiori il 24 febbraio 1874 da Raffaele e Maria Sarno. Compiuto il corso ginnasiale e liceale nel seminario di Capua, dove conobbe il cardinale Capecelatro e fu compagno di studi di mons. Oronzo Caldarola, futuro vescovo di Teggiano, egli studiò filosofia e teologia nel collegio di S. Maria in Napoli, dove conseguì la laurea in scienze sacre e frequentò l’università. Ritornato nel paese natale fu chiamato ad insegnare filosofia nel seminario di Amalfi. Ordinato sacerdote nel duomo di san Andrea, egli fu nominato vice-parroco a Maiuri e presidente della congrega di carità, segnalandosi per l’impegno sociale a vantaggio dei bambini e degli anziani; fu professore di teologia, filosofia e letteratura, successivamente canonico teologo della cattedrale di Crotone e rettore del seminario interdiocesano per otto anni. Nel 1912 mons. Cammarota fu nominato coadiutore del vescovo di Isernia e Venafro, che gli confermò la carica di vicario generale. Tra le molteplici esperienze di questo periodo, delle quali trarrà giovamento una volta presule a Vallo, fu il viaggio come missionario nel settembre 1910 a New York per conto della Società dei Missionari d’emigrazione.
Mons. Cammarota, preconizzato nel concistoro del 7 gennaio 1918 da Benedetto XV vescovo di Capaccio-Vallo e consacrato nella chiesa di S. Carlo al Corso il 19 marzo, fece ingresso in diocesi il 25 luglio. Il suo primo atto fu il pellegrinaggio al Sacro Monte di Novi. Egli s’immerse subito in una febbrile attività dando inizio alla visita pastorale il 23 agosto; garantì alla diocesi nuovi istituti pastorali. Il 16 dicembre 1919 mons. Cammarota acquistò a Vallo un immobile per ospitare le suore dell’Immacolata d’Ivrea, tanto benemerite per l’educazione religiosa e civile della gioventù femminile e nel gennaio del 1920 istituì la nuova parrocchia di Pestum, con grande sollievo della popolazione, afflitta dalla malaria; provvide al mantenimento di un economo spirituale nelle chiese di Pioppi e di Acciaroli, che cominciavano ad essere frequentate nella stagione estiva. L’energica azione ebbe una prima, breve battuta d’arresto il 6 maggio 1922 quando, recandosi in visita ad Ostigliano, cadde da cavallo fratturandosi un braccio. L’episodio denota la persistenza di ostacoli anche di natura logistica all’azione dei presuli della diocesi, come si era tante volte verificato nei secoli passati. Ma la fibra del presule non si affievolì; anzi, animato da zelo, alla morte di mons. Vescia accettò anche la nomina di amministratore apostolico di Policastro.
Uno dei momenti più significativi del suo episcopato fu la celebrazione del sinodo nel 1922. L’evento costituì una sorta di spartiacque nella storia della diocesi. Con questa assise si registrò una maggiore efficienza pastorale e un rispetto, almeno formale, della disciplina; mentre il modello di prete tridentino diventava il riferimento degli ecclesiastici diocesani.
L’allineamento in chiave conservatrice determinò pesanti ricadute sulla nascita e sull’affermazione di movimenti politici d’ispirazione cattolica. Fu il caso del partito popolare, cui vita asfittica e quasi inesistente in diocesi fu aggravata dall’incapacità di dar risposte concrete alle richieste contadine durante i conflitti sociali del 1920-21. La tradizione cattolica difendeva una società di proprietari, anche piccoli e medi, e la commistione d’interessi con la classe dirigente attenuò l’ispirazione democratica di alcuni esponenti del mondo cattolico. Clientele ed individualismo prevalsero ancora nel 1921 e nel giro di pochi anni le fila popolari si ristrinsero e molti chiesero la tessera fascista. Il partito risentì della scarsa incidenza di un movimento cattolico organizzato e delle secolari carenze delle parrocchie; perciò, all’eventuale impegno di singoli, non si affiancarono orientamenti univoci del ceto dirigente, condannando il popolarismo ad una diffusa incomprensione. (cont.)