Con orgoglio tutto meridionale, e si potrebbe dire salernitano, il compianto attore Franco Angrisano, parlando del figlio Antonio soleva dire «Questa è la mia “puntella” artistica» e ne aveva ben donde, visto che il piccolo Antonio, ad otto anni, già calcava le tavole del palcoscenico accanto al padre e nella compagnia del grande Eduardo De Filippo in “Questi fantasmi”, divertente commedia napoletana, nella quale Antonio rivestiva il ruolo di uno dei figli del protagonista.
Ma il profumo del teatro, anche se inconsciamente e in modo non voluto, Antonio lo sentì quando aveva appena cinque anni. Ricorda che era al Teatro Verdi di Salerno dove il padre Franco stava provando la commedia “Il Barone di Gragnano”. Vi era una scena in cui il copione prevedeva che lui ad un certo punto baciasse la protagonista, ma mentre si accingevano a provare la scena il piccolo Antonio si mette a urlare: «No, no, papà è mio!», ovviamente tra l’ilarità dei presenti.
Prima ancora di crescere gli viene affidato il ruolo di Giuseppe Marotta bambino in “La Napoli di Marotta” un lavoro teatrale in ricordo del giornalista e scrittore napoletano, autore di “L’oro di Napoli” dove affermava che “i ricchi sono poveri perché i poveri hanno l’oro”.
Ha appena dieci anni quando comincia a lavorare nella fortunata serie televisiva “I ragazzi di Padre Tobia” dove il padre Franco vestiva i panni di Giacinto, il simpatico sacrestano.
Ma il primo impegno importante fu con Eduardo De Filippo nella commedia “Il Sindaco del rione Sanità”, uno spaccato forte della società napoletana nei popolari rioni partenopei. Antonio ricorda che c’era libero il ruolo che doveva ricoprire Mario Scarpetta, impegnato in quel periodo in un film di Lina Wertmuller, per cui il padre chiese ad Eduardo un provino per il figlio. Ricorda Antonio: «Andammo a Cinecittà, entrammo nel camerino di Eduardo, che mi chiese se io fossi il nipote di Angrisano. Alla mia risposta che io ero il figlio, Eduardo mi guardò e disse “allora ci vediamo domani per le prove”. Non volle sentirmi e così iniziai la mia prima avventura televisiva con Eduardo, dove vestivo i panni di Gennarino, il figlio. Dopo qualche anno entrai nella compagnia di Luca De Filippo in “La donna è mobile”, che ebbe la prima nazionale a Firenze. Seguì poi una tournée estiva con “ ‘A fortuna ‘e pullecenella” dove Luca era Pulcinella ed io il suo aiutante, garzone nella bottega di calzolaio».
Sorge spontanea, a questo punto, la curiosità sulla differenza tra Eduardo e Luca. Negli attimi di silenzio che precedono la risposta, gli occhi di Antonio vagano alla ricerca di immagini, di ricordi visivi delle sue esperienze importanti di un tempo ormai lontano eppur vicino, poi: «Eduardo era immenso, anche se difficile; Luca, figlio d’arte, forse subiva l’enorme personalità del padre, ma era bravo ed io lo preferivo nei ruoli drammatici. Ricordo di aver visto recitare al Quirino in un ruolo drammatico e fu straordinario».
La sua carriera si è svolta tra televisione, cinema, teatro e doppiatore, un lavoro al quale arriva già adulto. Ricorda: « Rispetto ad altri miei colleghi, che iniziarono sin da piccoli, io decisi di intraprendere questa professione quando ero già grande, più o meno alla fine degli anni ’80. All’epoca lavoravo in Rai come attore per gli sceneggiati radiofonici. In seguito ad una minore produzione, decisi di trasferirmi a Roma per lavorare come doppiatore : una scelta dettata dal destino ». Poi, quasi cercando parole scelte, concetti appropriati, aggiunge: «Credo che solo un attore può fare il doppiatore, e soprattutto con un grande bagaglio di esperienza teatrale. La tecnica si apprende e si acquisisce con la pratica, la capacità espressiva e interpretativa invece si acquisiscono soltanto dopo anni di palcoscenico». E alla domanda se in questa professione ha avuto qualche punto di riferimento il suo pensiero va a Emilio Cigoli, la storica voce italiana di John Wayne, Gary Cooper, Gregory Peck, Burt Lancaster, Clark Gable. «Devo molto a lui – dice Antonio – perché mi ha dato molti, preziosi consigli».
Eppure il suo amore profondo è per il teatro, il calcare le scene, sentire a pelle il contatto diretto con il pubblico, quello che ti applaude o che ti può fischiare, che può decretare un successo o un fiasco. Dice Antonio: «Il mio rammarico è perché, avendo famiglia, avevo bisogno di sicurezza in un lavoro continuo e questo me l’ha dato il doppiaggio. Ho continuato a lavorare anche durante il Covid». E qui si scopre il classico meridionale (cosa di cui si vanta) che, per inconsapevole retaggio storico, è alla ricerca della sicurezza, del posto fisso. «Un giorno fui chiamato da Luca Fusco per “Il Cilindro” di Eduardo De Filippo dove avrebbe dovuto fare un buon ruolo, ma rinunciai, perché mia moglie era in attesa di Adriana, con una gravidanza difficile, per cui non me la sentii di lasciarla . Mi è rimasto un po’ di rammarico,
A chiedergli quale è l’attore doppiato che più gli è piaciuto, risponde subito Walter Molino, in una sit-comedy in cui ha sostenuto un ruolo brillante. Ma la voce di Antonio Angrisano è presente anche in molti documentari scientifici per la Chanel e per Geo % Geo. Poi a pronunciare la frase “Merci beaucoup” gli occhi si illuminano e il pensiero va a Gorni Kramer, un grande della musica, al quale, nel 2006, fu dedicato uno spettacolo dove Antonio sosteneva il ruolo di Kramer. Ricorda: «Era uno spettacolo che si presentava come una sorta di piano bar nel quale abbiamo ricordato Delia Scala, Carlo Dapporto e tutti quei grandi dello spettacolo che avevano lavorato con Kramer».
Gli uomini di spettacolo, si sa, rappresentano la categoria superstiziosa e Antonio Angrisano rientra a pieno titolo, non solo perché uomo di spettacolo, ma anche perché meridionale, coì se il copione cade in terra si batte tre volte, la sedia non deve mai girare su sé stessa usando un piede solo, mai viola in teatro e mai “ingegnare” un vestito nuovo, perché né di venere, né di marte… con quel che consegue… «Sono superstizioso quel tanto che non guasta».
Ma non solo superstizioso, ma anche emotivamente fragile… quel tantino che non guasta. Ricorda che quando ci fu il ridoppiaggio del film “C’era una volta in America” un classico della filmografia mondiale, doveva doppiare uno degli attori, ma sentendo la prima versione riconobbe la voce del padre, Franco, per cui chiese alla direttrice del doppiaggio di assegnargli il ruolo che aveva avuto il padre. «Per me fu una emozione – ricorda Antonio – sentire in la voce di papà e mettere la mia al personaggio che lui aveva doppiato». E questo sentire fa parte di quella sfera intima, personale che era tipica della famiglia Angrisano. Nonostante fosse spesso fuori per lavoro, Franco Angrisano è stato sempre presente in famiglia e, insieme alla moglie, la signora Adriana, ha inculcato ai figli un forte senso della famiglia, che viene prima di tutto. E d’altra parte quanto attaccamento vi è in Antonio lo si percepisce dai suoi continui rimandi al padre, al nome che ha dato alla figlia in ricordo della madre, “andata via troppo presto”. Quasi in sussurro dice: «Ho 64 anni, ma mi sento sempre il figlio di famiglia, ho ancora delle piccole indecisioni, come se volessi essere sollecitato da un padre o un fratello maggiore».
Si potrebbe continuare a scrivere su Antonio Angrisano ancora a lungo, parlando di certezze, paure, gelosie, di un quotidiano che appartiene ad un uomo del sud emigrato nella capitale per motivi di lavoro, ma che ritorna nella sua città a volte anche solo per ritrovare gli amici, annusare quell’aria di casa nella quale è nato e cresciuto.
Annotta in una tiepida sera di fine agosto, una sera in cui è bello attardarsi. Ancora non ci sono stelle, ormai così rare tra le luci della città, e Antonio dice: «Mi meraviglia sempre una stella cadente anche se è così veloce che il mio desiderio arriva sempre dopo la sua scomparsa».