Il 25 agosto 1834 il clero fu informato della morte dell’ordinario. I problemi della sede vacante si acuirono per la lite sorta durante la riunione capitolare. Il canonico Bamonte comunicò il 16 gennaio 1835 che il neo-eletto si sarebbe recato a Roma per la consacrazione episcopale. Michele Barone, entrato in diocesi l’8 giugno 1835, era nato a Baronissi da una famiglia di estrazione borghese ben inserita nell’ambiente ecclesiastico dell’archidiocesi di Salerno; infatti, un cugino nel 1837 fu nominato vescovo d’Anglona e Tursi. Per molti anni parroco d’Oscati, il presule s’era segnalato come un coinvolgente predicatore, abile nel catechizzare bambini e adulti, in particolare i contadini; particolarmente utile per il suo impegno di presule fu questa esperienza. Egli aveva fondato una congregazione di predicatori itineranti tra le popolazioni rurali per animare i fedeli con la semplicità della parola, trascurando l’impianto scenografico dei predicatori del tempo.
Ferdinando II lo propose per la cattedra episcopale di Capaccio il 18 novembre 1834. La scelta delle autorità governative, ormai estremamente sospettose circa la situazione della diocesi, era un segno di stima verso di lui. Il ministro di polizia Del Carretto ad aprile del 1835 gli sollecitò “un preciso e complessivo quadro sullo spirito pubblico”. Il vescovo rispose “estesamente, e con fermezza, zelo, e lealtà”. Il presule era preoccupato per lo scarso numero di seminaristi, richiamo i doveri pastorali, in particolare il catechismo ai fanciulli anche nelle cappelle rurali, raccomandando prudenza ai confessori. Egli denunciava anche la scarsa attenzione prestata dai chierici allo studio della teologia e dei canoni e l’indisponibilità ad aggiornarsi una volta ordinati; perciò aveva fatto stampare dei prontuari di casi morali da leggere e discutere a scansione mensile nelle parrocchie.
Mons. Barone procedette al riordino della curia e dei ripartimenti della diocesi; il 1 giugno 1836 annunciò di voler affrontare la complessa materia dei casi riservati, annoverando tra quelli senza scomunica l’omicidio, la sodomia, le false attestazioni di benefici ecclesiastici, tra quelli con scomunica le superstizioni con invocazione del diavolo, la falsa testimonianza nei giudizi – male diffusissimo nella zona -, l’usura, rapporti prematrimoniali e stupri. I provvedimenti evidenziavano alcune costanti nel comportamento della popolazione e la scarsa incidenza delle minacce vescovile perché si trattava di sanzioni stabilite già in epoca moderna. Il presule sollecitava ai parroci il dovere di versare la tassa sui benefici a favore del seminario e inviò un questionario relativo alla progettata visita pastorale con 41 domande circa la situazione delle chiese parrocchiali, 11 sulle confraternite e 50 sull’impegno pastorale. Il presule operò per rendere efficace l’amministrazione diocesana affrontando il problema della conservazione dei documenti; a tal fine fece ripristinare l’archivio trasportandovi la documentazione conservata alla rinfusa a Novi durante l’episcopato di mons. Speranza. Egli pose al centro delle sue attenzioni il restauro dell’antica cattedrale del Granato e il ripristino della residenza a Capaccio, rompendo una consolidata prassi per osservare scrupolosamente l’obbligo della residenza. Il suo impegno si concretizzò nella visita pastorale, iniziata nel marzo del 1837 nonostante i pericoli per la ricorrente epidemia di colera. Egli dovette scontrarsi con abitudini inveterate, che pregiudicavano il decoro delle chiese, dove si affastellavano ridicole statue di cartapesta. Il servizio liturgico era trascurato, segno della decadenza del sentimento religioso, resa più grave dalla persistente e diffusa ignoranza. Per porre rimedio a tanti abusi avrebbe voluto celebrare un sinodo, ma l’indisponibilità del governo a riconoscere i decreti sinodali ne sconsigliò la convocazione; perciò, nella sua azione di riforma utilizzò le lettere pastorali per catechizzare i fedeli. In quella del febbraio del 1836 egli trattò del rispetto della festa, invitando a evitare i lavori manuali e a partecipare alla celebrazione della messa; in quella del 1837 cercò d’inculcare il valore della preghiera spiegando il significato e l’importanza del Padre nostro e dell’ave Maria. La sua sensibilità missionaria trovò ulteriore riscontro nella lettera pastorale del 1842; parafrasando Paolo, egli manifestava crucci e speranze. Le sollecitazioni trovarono qualche riscontro nel progetto di costituzione di una congregazione di sacerdoti missionari diocesani in undici capitoli. Nella bozza venivano recepite le sue esperienze quando da parroco aveva fondato un analogo istituto. Con questa fondazione cercò di valorizzare i sacerdoti diocesani, rinvenendovi anche un occasione di aggiornamento e un’opportunità per vigilare sulla formazione dei chierici.
Nella visita ad limina del 12 ottobre 1837 mons. Barone espose lo stato della diocesi descrivendo la desolazione della cattedrale e del capitolo. I canonici da secoli non risiedevano a Capaccio e la divisione in due dipartimenti, con due curie e due vicari generali indipendenti determinava ripetute disfunzioni. Per evitare tale abuso, egli aveva diviso la diocesi in quattro distretti, nominando un solo vicario generale e utilizzando una sola curia presso la propria residenza, mentre in ogni distretto nominava un pro-vicario o vicario foraneo alla sua dipendenza per evitare il perpetuarsi di gravi disfunzioni. Con la santa visita, dopo tanti anni, egli impartì la cresima a circa 20 mila fedeli; procedeva alle ordinazioni nei tempi stabiliti e vigilava sulla regolarità delle adunanze dedicate alla soluzione dei casi morali. Consapevole della complessità della provvista delle 140 chiese parrocchiali, mons. Barone non aveva proceduto a nuove nomine, insistendo presso il sovrano perché aumentasse le congrue secondo i dettami del concordato vigente; inoltre, aveva dovuto dedicare molto tempo, risorse e fatiche alle liti giudiziarie per impedire usurpazioni e tentare di recuperare rendite e diritti della chiesa. La diocesi, con 124 luoghi abitati e circa 200 mila fedeli, contava 140 chiese ricettizie curate; i conventi di religiosi e di frati erano 20, 2 i collegi di padri della dottrina cristiana ed una casa di liguorini era stata aperta da poco a Vallo.
Mons. Barone dovette impegnarsi anche a rendere più efficiente l’amministrazione della mensa, che durante l’episcopato di mons. Speranza era stata gestita con criteri molto discutibili; nel 1839, ad esempio, su un carico di oltre 3.100 ducati il nuovo tesoriere attestava un residuo di appena 349 ducati. Egli si avvalse dell’esperienza e delle conoscenze di alcuni laici per venire a capo del grave disordine; tuttavia, per mancanza di documenti con molta difficoltà riuscì a disporre di una mappa esatta dei benefici per aggiornare l’elenco dei debitori; a prezzo di tanti contrasti ebbe ragione degli abusi più gravi, ma la molteplicità degli impegni contribuì ad indebolire la sua salute, già minata dal fatto che non si risparmiava nel percorrere a dorso di mulo la vasta diocesi. Morì il 7 ottobre