«Zia mi racconti una storia?» chiede la mia nipotina quando, in attesa della tavola pronta, si siede sul gradino di casa, i gomiti sulle ginocchia e la testa sui palmi, gli occhi inchiodati in faccia per impedire ogni rifiuto.
Io che per età ho nella mente cose lontane tra quelle vado a pescare. Penso che quando avevo la sua età, in assenza di bambole e giocattoli, cercavo per strada bottigline vuote di profumi, scatolette, certi cubi d’argento usati sulle macchine fotografiche per fare il flash, oggetti buttati che mi servivano per scenette di fantasia. Le racconto di un mondo vero come se fosse finto, fatto di di personaggi sfocati e di pentole annerite, di cordami e campane nei pagliai di Rosano, di barilotti piccoli col tappo di legno per portare a tracolla l’acqua fresca dei Purcili, di lucerne di ferro battuto per quando andava via la luce. Tutte cose che lei ascolta come una fiaba.
«Mia madre – la tua bisnonna, preciso – quando vedeva tutte queste cose vecchie preparava un sacco per buttarle, ma io non volevo, la guardavo in faccia e riuscivo a convincerla. Così il sacco me lo tenevo di nascosto, come fai tu coi tuoi giocattoli».
È vero, mi ricordo, ma è vero anche che era contenta lei stessa di trattenerli, perché più di me associava ad ognuno di quei cimeli un racconto o un episodio detto dai grandi, di quel che era capitato una volta, mentre armeggiavano con l’uno o con l’altro. Per esempio c’era una vecchia scatola di legno che io adibivo a cassapanca per il corredo della bambola, e lei mi spiegava che era stata, in mano a suo padre, la cassetta delle munizioni nella guerra del ‘15-‘18.
«Zia ma cos’è la guerra del 15-18?». Mi fa sorridere la mia nipotina perché ha ragione: lo chiedevo anch’io a mio nonno, per vederlo solo ciondolare la testa senza rispondere, perso in chissà quali immagini di terra e di pietre del Carso.
Allora sposto l’attenzione su un altro oggetto del mio armamentario da intrattenimento, una grossa catena ad anelli che pendeva dal camino per sostenere il pentolone della lisciva. «Sì, un po’ come quelli delle streghe, però serviva per lavare le lenzuola, perché allora non c’erano le lavatrici. Quando arrivarono i detersivi in polvere e la zia Peppina aprì il primo pacco azzurro con la scritta Vel, tirò da dentro alla polvere bianca un giocattolino di plastica rossa, un po’ come le sorprese dei Kinder di adesso, e me lo diede in mano».
«Nel detersivo?» lei fa una risatina da saputella. «Ma sei impazzita?».
«Macchè impazzita, se vuoi te lo faccio vedere, il giocattolino – mento. Scendiamo giù?»
«No, dimmi un’altra cosa»
«La vedi quella scalinata laggiù, che gira dalla fontana? Da lì, quand’ero piccola io, vedevo comparire un uomo con un mantello a ruota, che appena arrivava in cima si fermava, si metteva alla bocca un corno di ottone e ci soffiava tre volte dentro prima di gridare: Il pesce! Il pesce! In piazza è arrivato il pesce! oppure Il circo! In piazza è arrivato il circo! Lo chiamavano “il bannista” e gridava così forte per avvisare tutta la gente».
«E da quella scala lì di fronte invece?»
«Da lì scendeva ogni giorno alle undici una vecchietta magra vestita di scuro, ma non veniva mai per il bannista, veniva ad aspettare il postino con la borsa di cuoio a tracolla. Quando il postino si fermava qui davanti e apriva la borsa sul ginocchio lei guardava in silenzio e se per caso ne vedeva uscire una busta sottile con una cornicetta bianca e blu, allora era tutta contenta perché era di sua figlia che scriveva da lontano».
«Ma oggi non è ancora passato il postino?»
«No, ora questi mestieri non esistono più, perché la posta ormai arriva sul cellulare».
«E tu nel sacco giù tieni conservato pure il corno del bannista?»
«Ma no, quello non era mio…»
Lei è un po’ delusa, gira la testa verso l’interno della casa, guarda e poi si alza, mette le mani a imbuto davanti alla bocca e grida verso le finestre chiuse del vicinato: «È pronto! Venite tutti a mangiare! Cè pure la torta!».