Sono immagini, quelle di Gianluca Capozzi, che recano il fragore dello scrosciare delle acque. L’acqua precipitosa di un torrente in piena che sgretola il letto e trasporta molteplici detriti: un fiume eracliteo di realtà, culture, concezioni e suggestioni varie, su cui talvolta piovono calligrafiche e pesanti gocce decorative di pioggia cromatica, in una concezione liquida a tutti gli effetti. Liquida, nella misura in cui estremamente diluita è la materia pittorica che fa di una veste acquerellata dell’acrilico la sua voce d’eccellenza, così come liquida è la forma mentis che la “informa” – a volte fino a distruggere la forma – ovvero la forma mentis del viaggio.
Una pittura on the road, che corre e attraversa – anche se in modo superficiale, puramente “estetico” nel suo trattamento – storie, frammenti e visioni della cultura alta così come di quella popolare, rifocillandosi in un’iconografia mista che si sciacqua preferibilmente nell’oceano del mondo americano, con più o meno inconsci omaggi alle scritte decorative di Twombly. Il tutto attingendo a immagini della sfera politica, di balli di gruppo e di scenari della mafia statunitense anni Venti, sdrammatizzata da una frequente comparsa di personaggi dei fumetti, specie disneyani.
Così, accompagnato da un Topolino, così come da altre icone più o meno identificabili, l’occhio si muove spasmodicamente sulla superficie delle tele di Capozzi, disorientato nell’ambizione alla fruizione frenetica totale delle stesse che, pur se fittamente stratificate, spingono sul livello più esterno tutto ciò che “trasportano” (o, meglio, da cui sono percorse). Ad animarle, un’incessante pulsazione: tanto di macchie astratte – che fanno ora da sfondi ora da giustapposizioni – quanto delle entità figurative (alle macchie parificate) che godono talora di una resa iperrealistica, pur se stilizzata (nel caso dei miti dei cartoni animati), talaltra di un trattamento più approssimativo, liquido appunto. Una pulsazione quindi che, mescolando, pur nel mantenimento dell’individualità dei vari ingredienti, origina delle pulp pictures.
L’affastellamento grafico, che satura la fruizione, spazza via ogni possibilità di esistenza materica, rendendo la pittura di Capozzi una pittura di tempi; e, paradossalmente, sono proprio gli spazi che danno la misura della temporalità. Lo dimostrano le scene d’interni ritratte in serie mediante tele che raffigurano un ambiente in numerose variazioni, facendo sì che questo accolga di volta in volta soggetti (figurativi o astratti) diversi, di passaggio concreto o figurato (nel caso di visioni) in quel dato luogo, sorta di struttura che funge da pretesto per la sperimentazione delle casualità e dei limiti della pittura.
Disposte in allestimenti che le comprendono in uniche soluzioni installative, le tele di queste serie “temporali” acquisiscono pertanto una componente cinematografica di consecuzione, non di certo logica, se il non-sense è sovrano nelle opere dell’artista, decollages grafici (non materici, si ribadisce). Gli scenari creati, da quelli più cupi fino alle esplosioni cromatiche psichedeliche, sono dei pop-patchwork, risultato di un ulteriore viaggio, ovvero il percorso evolutivo dello stile dell’artista che, a partire da esordi pittorici fotorealistici associati alle sperimentazioni fotografiche, passa per manipolazioni fotopittoriche quali fotomontaggi che frattagliano la realtà e la interpolano con sprazzi pittorici, fino ad arrivare all’inclusione del concetto fotografico di inquadratura e soprattutto dello spirito grafico nella pittura. Tutto ciò condito da portati scientifico/religiosi, orientali e non solo, con particolare riguardo ai canali percettivi (meglio “suggestivi”) stimolati, quali la telepatia (che l’uomo comune non è più in grado di usare), ma anche alla chiaroveggenza e agli stati cagionati dalle erbe allucinogene.
Da qui Caleidoscopio: un progetto che, sull’appropriazione del termine con cui si definisce quello strumento di creazione di immagini virtuali presto cangianti (non concrete appunto, bensì percezioni di figure simmetriche originate dal riflesso di perline su specchietti disposti ad angoli, pronti a cambiare con la rotazione dello strumento stesso), celebra l’infinita variabilità del flusso. Il flusso della realtà, quello dell’immaginazione, delle sensazioni; flussi con-fusi, mutevoli e fatti di attimi, variabili come i simulacri di icone che scorrono nel caleidoscopio.
Eliana Urbano Raimondi