Il mio ricordo di Mario Napoli è sfumato nel tempo, alla fine degli anni ’60 inizi anni ’70, ma vivo e legato a episodi degli inizi della mia attività di pittore.
Mi parlava di lui Carlo Alfano e a me, giovanissimo e apprendista pittore, allievo del Liceo Artistico di Salerno, stupiva moltissimo che un artista d’avanguardia stimasse tanto un archeologo che, dopotutto, si interessava invece di pittura “antica”.
Uno dei primi impatti, forse quello decisivo, per la mia attività futura con la pittura lo ebbi nel 1968, quando una troupe della RAI venne a Paestum per un servizio sulla “Tomba del Tuffatore” e cercavano, per simulare televisivamente il gesto dell’atleta, un giovane che facesse un tuffo a mare (era il mese di novembre), per cinquantamila lire, somma che per quei tempi costituita una fortuna per un ragazzo come me. Erano le quattro del pomeriggio, e mi ricordo che quasi non si vedeva. Eseguii tre o quattro tuffi a riva, credo non molto bene; l’acqua era bassa e non è che potessi fare dei bei tuffi ma solo, come si dice in gergo, delle “panciate”. Alla fine della “performance” andammo con il pulmino della RAI negli scantinati del museo. Fu lì che vidi per la prima volta la “Tomba del Tuffatore”. Mario Napoli, illuminato dai fari e dalle lampade che ne accentuavano il rossore, parlava dell’affresco.
Usava lo stesso linguaggio e la terminologia come se, così mi sembrava, si fosse trattata di un’opera d’arte moderna. Rimasi stupito e commosso dall’attualità di quella pittura e dalla semplicità, nell’illustrare l’opera, che evidentemente racchiudeva una grande conoscenza dell’arte, antica e moderna, del grande archeologo. Fu in quel momento che capii il perché della stima di cui godeva Mario Napoli all’Accademia delle Belle Arti a Napoli, quando artisti, diversi gli uni dagli altri per scuole, poetiche, generi, come Brancaccio, Capogrossi, Mastroianni, Perez parlavano di lui. Qualche tempo dopo proposi a De Franciscis, che curava gli ampliamenti del museo, una mostra d’arte moderna da organizzare nei locali dell’ex sede vescovile, attuale palazzo De Maria.
Ad Anna Caputi della galleria d’arte “Il Centro” e animatrice del Teatro Esse, l’idea dell’impacchettamento dei templi ad opera di Christo, a cura del critico francese Pierre Restanj, mio amico e anche lui grande estimatore di Mario Napoli.
De Franciscis mi mette in contatto con Napoli e in un pomeriggio di giugno nel giardino del museo, dove c’è l’opera di Carlo Alfano, il soprintendete si presenta all’appuntamento con un maglio bianco dolce vita, piuttosto abbronzato e coi capelli bianchissimi. E’ naturalmente entusiasta dell’idea così come lo fu a proposito della Medea nel tempo di Cerere, ed è molto cordiale, tanto da non mettermi a disagio. Mentre ci sediamo sugli scalini del giardino del museo, arrivano due gigantesche coppe gelato del bar Voza, che è lì vicino. Mario Napoli mangia avidamente il gelato e mi chiede se è buono. Si mette a ridere quando si accorge che io l’ho già finito. Mi ricordo di un altro incontro in Via Valerio Laspro a Salerno. Stava cambiando casa ed io, che da Napoli intendevo trasferirmi a Salerno, visitai il suo appartamento. Durante la visita, disinteressandoci dell’appartamento, mi raccontava di come, su commissione, i pittori dipingessero, senza ripensamenti, su lastre funerarie e di episodilegati alla sua esperienza di docente all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Troppo grande per me, sette stanze, troppo piccolo per lui, per questo se ne andava da quella casa, e chiudemmo la questione appartamento. E poi tante immagini, presenze di Mario Napoli in mostra d’arte moderna a Roma, Napoli, Salerno con Alfonso Gatto e Lelio Schiavone del Catalogo, la sua presentazione ad Antonio Passa per una mostra a New York, a Mario Carotenuto per l’Ars Amandi, le sue discussioni con Tono Zancanaro e Pietro Laveglia sui disegni: un archeologo sempre a suo agio nelle presentazioni, a contatto con gli artisti con i quali si dialogava d’arte moderna con la stessa competenza di un addetto ai lavori. Ogni lezione di pittura, in Accademia, si risolveva, da parte dei Maestri, nel chiedermi notizie del grande archeologo. E io un po’ campavo di rendita, potendo vantare della presenza a Paestum di Mario Napoli che conoscevo appena. Giovanni Brancaccio, per esempio, grande esperto di pittura pompeiana e di affresco, mi teneva in grande considerazione e dava per scontato che io, avendo visto le lastre dipinte del museo in compagnia dell’archeologo, automaticamente conoscessi le varie tecniche dell’affresco. Il mio dialogo con Mario Napoli, incominciato quando ero più che un ragazzo non si è mai interrotto, nemmeno dopo la sua morte. I suoi libri, l’amicizia con De Franciscis, le conversazioni con Carlo Alfano inevitabilmente cadevano su Mario Napoli e la Pittura ad una linea, senza chiaroscuro e poi Roberto Pane – che parlava male di tutti tranne che di lui – e poi gli amici dell’Accademia e poi, più recentemente, Pierre Restanj ed Ezio De Felice. L’ultimo mio incontro con Mario Napoli, forse il più commovente, è avvenuto circa due anni fa a casa sua, nel suo studio, su invito della sua famiglia e ho avuto la netta sensazione che egli fosse presente, insieme a noi, a sorseggiare il caffè. Con aria sorniona e sorridente sembra che mi guidasse, in quel pomeriggio d’estate, nella ricerca di immagini, foto, appunti del suo archivio, meticolosamente ordinati. Mi è subito venuto in mente una mostra di tutto quel materiale (inedito) perché ritenevo giusto che la gente ne venisse a conoscenza e che avesse un’idea della metodologia del suo lavoro di ricerca; di come egli, a tavolino, studiasse e ordinasse le idee sui materiali che sul campo, di giorno, egli esplorava. Dopo lunghe esitazioni ho pensato che persone più autorevolie molto meglio del sottoscritto, potessero organizzare tale mostra in onore di Mario Napoli, pur meravigliandomi non poco di come nessuno, prima d’ora, ci avesse già pensato, tenuto conto anche della grande disponibilità con la quale la famiglia mette a disposizione il preziosissimo materiale. L’intera collezione dell’Archivio di famiglia di Mario Napoli meriterebbe, a mio parere, di essere conservato in una raccolta pubblica o in una fondazione ed è il minimo che andrebbe fatto in onore del grande archeologico del quale, in documenti e immagini, sono presenti almeno trenta anni del suo lavoro.