Si trascorre una vita affrontando sacrifici, soddisfazioni e delusioni di ogni genere e poi ci si ammala improvvisamente e si lotta per fare di tutto per rimanere in vita. Succede a tanti, purtroppo! E non tutti riescono ad avere la meglio sulla malattia.
Oggi vi raccontiamo la storia di Giuseppe Pellegrino, un uomo di grande forza d’animo, un instancabile lavoratore, un marito, un padre.
Nel 2005 si ammala a causa di un’insufficienza renale e va in dialisi. Nel 2008 entra in lista per ricevere un nuovo rene. Intanto affronta la sfiancante esperienza della dialisi alla quale si sottopone tre volte a settimana. Nel novembre 2012 le speranze diventano certezze e viene sottoposto al trapianto di rene presso la Fondazione Macchi di Varese. Da quel momento Giuseppe ricomincia a vivere: torna nel suo paese, Vallo della Lucania, e riprende a lavorare nella sua attività commerciale. La dialisi e la malattia sono ormai alle spalle e lasciano spazio alla gioia di un nuovo inizio.
Nel maggio 2013, però, Giuseppe inizia ad accusare dei forti dolori all’altezza del rene trapiantato. Immediatamente si mette in contatto con la struttura nella quale aveva subito il trapianto, temendo una crisi di rigetto. Il 4 giugno 2013 viene ricoverato e sottoposto a tutti gli accertamenti del caso; dopo una settimana i medici avvisano la moglie di Giuseppe di aver riscontrato un tumore al rene trapiantato. Dopo 2 mesi muore.
Una storia drammatica dai risvolti raccapriccianti ed inquietanti.
La famiglia Pellegrino si mobilita immediatamente sporgendo denuncia, in seguito alla quale viene aperta un’indagine. Grazie al lavoro attento e scrupoloso dell’avvocato di famiglia, Riccardo Ruocco, si scoprono due fatti di una complessità inquietante: 1) il rene trapiantato era affetto da carcinoma con metastasi; 2) il donatore era morto suicida; l’uomo, infatti, era morto nel 2012 con un colpo sparato alla testa, senza dare alcuna spiegazione. I suoi familiari, per regalare una speranza ad altre persone, concedono il prelievo degli organi che viene eseguito all’ospedale di Mantova subito dopo il decesso.
A questo punto l’avvocato prosegue le indagini concentrandosi sul donatore e si scopre qualcosa di ancora più inquietante: nell’agosto del 2013 era morto un altro paziente che aveva ricevuto l’altro rene del donatore e dopo pochi mesi muore anche un altro paziente che aveva subito un trapianto di fegato (donato dallo stesso donatore). Si scopre, inoltre, che i due pazienti erano morti in seguito al trapianto, non per il rigetto degli organi ricevuti, ma per tumore, proprio come Giuseppe Pellegrino.
A quel punto la procura di Varese apre un fascicolo, poi trasferito a Mantova, luogo dove era avvenuto il prelievo degli organi.
Sull’incredibile vicenda ora indaga la procura di Mantova che, circa un mese fa, ha ordinato la riapertura delle indagini, dopo che, a fine 2106, il pm ne aveva chiesto l’archiviazione.
Nei giorni scorsi il Gip del tribunale, Matteo Grimaldi, ha affidato l’incarico ad un nuovo pubblico ministero, disponendo ulteriori e più approfondite verifiche sulla natura dei tre decessi. L’unico indagato al momento risulta essere un ex primario del Poma, oggi in servizio in un altro ospedale. L’ipotesi a suo carico è di omicidio colposo delle tre persone decedute dopo il trapianto. Il reato contestato parte dall’ipotesi che gli organi prelevati a Mantova e destinati ai tre riceventi fossero tutti già malati e che quindi non siano state eseguite le opportune verifiche, come ad esempio le biopsie che potevano rivelare la presenza di cellule malate nel fegato e nei due reni.
«L’ordinanza di riapertura delle indagini resa dal Gip di Mantova ci restituisce serenità e fiducia – sottolinea l’avvocato Ruocco. La morte del mio assistito e di altre due persone potrebbe essere stata cagionata da colpa grave di qualcuno che non si è accorto che il donatore aveva una patologia tumorale che si è trasmessa dal donatore ai riceventi. La causa del decesso delle tre persone che hanno ricevuto gli organi è stata dimostrata. Ora dobbiamo scoprire con certezza scientifica se chi ha curato il prelievo ha fatto tutti gli accertamenti del caso per capire lo stato di salute dei tre organi».
Il termine concesso è di altri sei mesi, alla scadenza dei quali non è escluso che si proceda con un incidente probatorio che prevede di sentire anche le parti in causa.
«In ogni caso – continua il legale – ammesso e non concesso che questo esame sia stato eseguito e che quindi il tumore non era ravvisabile perché ancora ad uno stadio embrionale, a questo punto rischiamo di trovarci di fronte ad un caso che getta ombre sull’intera procedura dei prelievi di organo e peggio ancora al cospetto di una nuova forma di carcinoma, nuovo nel panorama mondiale, perché tanto piccolo da riuscire ad uccidere una persona sana nel giro di appena sette mesi». L’avvocato sa bene che nel caso di trapianti al paziente ricevente viene fatto firmare un consenso sulla base della classificazione di rischio: «Al mio è stato fatto firmare quello di una normale procedura, quando invece in caso di rischio elevato magari bisognava informarlo che “gli organi sono idonei ma non posso escludere una forma tumorale molto piccola”».
Della vicenda è stato interessato anche il ministero della Salute. L’unico indagato, al momento, è un noto primario di Mantova, accusato di omicidio colposo.