E’ talmente parte integrante della nostra quotidianità, e non potrebbe essere diversamente, che sfugge ad ogni nostra riflessione, ad ogni personale domanda, ad ogni considerazione se non quella scontata di essere… un muro. Eppure lungo i muri, ogni giorno, passano uomini, donne, bambini, giovani, anziani, da soli, accompagnati, in gruppo; ogni giorno scorre una umanità laboriosa con le sue preoccupazioni, con le sue frette, i suoi lenti passi di riflessione.
Ma fu l’osservazione di un muro che circondava una villa a seminare nell’animo di Pio Peruzzini quella voglia sottile, inspiegabile, ma impellente di raccontare per immagini sequenze di opus reticulatus, di pietre a faccia vista o di mattoni intonacati eretti a separazione, protezione o quant’altro essi potessero rappresentare per chi li vive o per chi li osserva dall’uno o dall’altro versante.
Prendeva forma, così, giorno dopo giorno, una sequenza di immagini-racconto che Pio Peruzzini ha messo in mostra al FRAC di Baronissi sotto il titolo “Lungo i muri”, accompagnando quegli scatti con un libro-catalogo, suscitando nei fruitori una serie di interrogativi, di domande alle quali ognuno dà le risposte che sono connaturate alla sua formazione umana e culturale.
Di sicuro un “muro” suscita nell’animo dell’uomo libero e libero pensatore, un che di inquietudine. La mente rimbalza inevitabilmente a quelle divisioni, a quegli odi che la separazione a mattoni (o pietre o, più recentemente, cemento) impone giocoforza, inibendo la visione dell’oltre, del lontano (o immediatamente al di là), “proibisce la conoscenza del non visibile e se mai – sottolinea Massimo Bignardi in presentazione del libro-catalogo – il contatto, la stretta di mano con l’altro”. Ed è la non consapevolezza, la proibizione del sapere altrui, l’isolamento egoistico, becero; non eremitico, ascetico. Questo, religioso, si raccoglie non dietro un “muro”, ma tra le “mura” dove l’esaltazione dello spirito, i pensieri dell’anima sono pratica di ogni giorno a corona di infinito, raccolto in sintesi di preghiera. Sono, quelle “mura“, “serbatoi di vita per le stagioni di vuoto e di stanchezze dell’umanità”. Ed è la meditazione del quotidiano rivolto ad un domani più o meno immediato.
Così l’immagine di apertura dell’interessante sequenza fotografica di Pio Peruzzini è la visione, familiare, di un venditore ambulante estivo, fermato a mezzo tra una striscia di sabbia e il limitare di un mare disteso sino all’ultimo orizzonte. Sarà il lettore della foto ad intuire, o meglio ad immaginare se quell’uomo, con cappello di paglia e “magazzino” portatile sotto il braccio, cammina a piedi nudi tra la liquida superficie dell’acqua che tutto cancella, o sulla sottile sabbia a lasciare l’impronta del suo passaggio: l’autore regala, così, una esclusività di lettura alla personale sensibilità umana e culturale di ognuno.
Ma per Peruzzini ci sono anche i “muri”, luoghi pubblici, all’aperto, che appartengono a tutti e sui quali si può disegnare qualcosa, si possono leggere tracce di un passato o di un presente spesso preoccupante, si può proiettare la propria ombra nella luminosità del sole o alla discreta luce di un lampione, di una candela. E non sono ombre cinesi, ma passaggi umani, a volte neanche avvertiti, perché ombre, come quelle che, al di à del muro d’acqua, di insofferenze, sovranismi moralmente illegali, tentato la disperata via della vita, trovando, spesso, la via del non ritorno. Visione che non è contemplata nel dizionario fotografico di Peruzzini.
Una mostra e un book, quindi, dove l’autore codifica un “repertorio di scatti – scrive ancora Bignardi –che dal 2011 arriva all’anno corrente e rivelano quanto la sua (di Peruzzini – nda) fotografia insista sulla capacità che l’immagine ha di farsi narrazione, autonoma dal mondo che mette in posa”. Ecco, allora, che la sequenza di scatti si fa traccia di un vissuto, filo conduttore di un viaggio dell’anima alla ricerca di quell’isola felice che in fondo non c’è, tracciata da Guido Gambone in lavori ceramici a corona di un territorio che produce (premio Faenza 1942 e 1947) e una “Ospitalità” vietrese i cui segni ceramici si rifanno alla cultura mediterranea. Non divisione, allora, in questa lunga teoria di scatti a raccontare uno sparso territorio italiano e portoghese, bensì una voglia, per l’autore naturale, di stendere la mano all’altro, forse invisibile, ma esistente, di conoscere e far conoscere quanto i “muri” e non il “muro” ha da dire agli umani che lo frequentano distratti, lo attraversano con stanchezza, alimentati da “povertà dello spirito e debolezza della ragione – scrive a proposito Alfonso Di Muro – dove il senso del sacro rispetto della vita si perde”. Così i “muri” diventano “compagni di noia – scrive don Gianni Citro – il segno più eclatante e monumentale delle contraddizioni dell’uomo”. Ed è la solitudine del “muro” che si anima soltanto quando qualcuno lo frequenta, con un percorso o una sosta più o meno lunga.