Con la Domenica delle Palme ha inizio la Settimana Santa con lo straordinario fascino delle antiche liturgie cariche di misteri, simboli, allegorie e messaggi. Io mi rivedo bambino con il mio ramo di olivo, addobbato di mandorle e fichi secchi, ondeggiante tra cento mani a cogliere l’acqua lustrale dal sacerdote officiante benedicente. E mi perfora di tenerezza anima e cuore la musicalità dolce del canto gregoriano del “Passio”, con la rievocazione dell’ingresso di Gesù Cristo a Gerusalemme. “Pueri Haebraeorum pontantes ramos olivarurm obviaverunti in viam clamantes et dicentes: Osamma filio David…” E capii, già da allora, che l’ulivo era simbolo di festa, di gioia e di pace, cosa che avrei interiorizzato in seguito nel rigore degli studi. E riscoprii la sacralità dell’ulivo nello studio dei miti e nella letterarietà dei poeti. E scoprii, così, che quell’albero, contorto, bitorzoluto, dal tronco spesso cavo, dove facevano il nido i passeri, i merli, ma anche la civetta, che di notte lacerava i silenzi con i suoi lamenti, era parte integrante della storia, soprattutto, rurale, della mia terra. Con l’avanzare degli anni e l’approfondimento degli studi rigorosi seppi che a partire dall’ottava olimpiade, per ubbidire al responso dell’oracolo di Delfi, gli eroi venivano incoronati con un ramo di ulivo, che sostituì le mele d’oro rapite da Eracle nel giardino delle Esperidi. D’altra parte di legno di olivastro era fatta anche la clava del forzuto eroe/dio. Ben più salde e motivate erano le notizie che facevano risalire la nascita dell’ulivo alla dea Minerva/Atena, che lo piantò per la prima volta in Grecia: un giorno la dea si scontrò con Poseidone, dio del mare, per il possesso dell’Attica. Per dirimere la contesa, gli dei dell’Olimpo si rivolsero a Cecrope, primo re di quelle terre, il quale promise la vittoria a chi avesse creato qualcosa di veramente straordinario. Poseidone colpì con il tridente l’acropoli e ne fece scaturire acqua salata. Ma Atena/Minerva si assicurò la vittoria piantando l’olivo, come rievocava una iscrizione sul frontone dell’Acropoli. Da quel giorno la città si chiamò Atene, come la dea, e gli ulivi diventarono sacri alla vergine dea ed assunsero il simbolo della castità. E non solo era proibito bruciarne il legno ma veniva anche punito severamente chi li danneggiava. Una curiosità storica ricorda che persino gli Spartani, sconfissero e saccheggiarono Atene, risparmiarono gli ulivi temendo la punizione degli dei. E il grande retore Lisia scrisse “Per l’ulivo sacro” e Sofocle esaltò importanza, bellezza ed utilità dell’ulivo nella sua nota tragedia “Edipo a Colono”. Quella stessa sacralità viene esaltata da sempre anche nella Domenica delle Palme, che commemora l’ingresso del Signore a Gerusalemme e quei rami di ulivo alludono alla riconciliazione di Dio con gli uomini di cui la Pasqua è l’evento storico straordinario. Si narra, poi, che dopo il diluvio universale Noè inviò la colomba messaggera, che tornò con un ramo di ulivo cresciuto sulla tomba di Adamo. Quei due rami furono conservati da Noè e trasmessi ai discendenti fino a diventare i due bracci della Croce di Cristo. Una espressione alta della letterarietà dell’ulivo sono i versi di Gabriele D’Annunzio: “Laudato sia l’ulivo nel mattino!/ Una ghirlanda semplice, una bianca/tunica, una preghiera armoniosa/a noi son festa/… Tocca l’anima nostra come tocchi/il casto ulivo in tutte le sue foglie/e non sia patte in lei che tu non veda/Onniveggente”. Identica sacralità ed altrettanta straordinaria letterarietà ha la palma. La verticalità del tronco che cerca il cielo e l’armonia delle foglie disposte a raggiera evocano immediatamente il simbolo della bellezza e dell’armonia. E da sempre in tutta l’area del Mediterranneo il miglior complimento ad una donna consisteva nel paragonarla ad una palma come testimoniano per primi i bellissimi versi del Cantico dei Cantici con la straordinaria simbologia delle metafore/immagini dello sposo che loda la sua donna dicendole: “La tua statura assomiglia ad una palma ed i tuoi seni ai datteri”. E, come tutti abbiamo appreso dai libri di scuola studiando l’Odissea, Ulisse, stupito all’apparizione di Nausica esclama: “perché con i miei occhi mai vidi un tal mortale,/né uomo né donna: stupore mi invade guardandoti./Vidi una volta a Delo, accanto all’altare di Apollo,/levarsi così un giovane germoglio di palma…”. In greco la palma veniva chiamata “phoinix” come il leggendario uccello che viveva 1461 anni e moriva briandosi nel suo stesso nido per poi rinascere dalle sue stesse ceneri. Il ciclo di 1461 anni corrispondeva esattamente al Grande Anno Egizio, al cui termine il cosmo si rigenerava. E siccome era il sole a segnare l’inizio e la fine del ciclo, la fenice veniva associata ad Eliopolis, città solare per eccellenza, come recitava il toponimo del nome. E la fenice assurgeva anche a simbolo dell’eternità della bellezza e dell’armonia. Oh, la tenerezza della poesia dei miti, che nella Domenica delle Palme ci gonfia di dolcezza anima e cuore.
Giuseppe Liuccio