A cinquant’anni dalla morte di don Lorenzo Milani può risultare utile riflettere sulla sua biografia e la sua opera, allora messa all’indice anche dalla Chiesa ed oggi elevata alla gloria della profezia. La scuola di Barbiana potrebbe rivelarsi la soluzione di tanti problemi soprattutto nelle asfittiche aule dei plessi scolastici dei nostri paesi, sempre meno affollate da alunni e testimoni dell’azione stanca e ripetitiva d’insegnanti assillati da formalità burocratiche che ridimensionano l’inventiva, feconda e formativa azione svolta nel passato dal MAESTRO nella comunità. Intanto si procede ad una revisione delle strutture scolastiche sparse sul territorio rispondendo, più che ad una logica di efficienza del servizio secondo il dettato costituzionale circa l’istruzione pubblica, ad un’asettica revisione secondo criteri di mera riduzione della spesa pubblica, scelta poco attenta alle esigenze dei più disagiati e bisognevoli di aiuto.
Don Milani ha denunciato con la forza abrasiva e scarnificante della sua testimonianza quotidiana, irrorata dalla fede che ha sostenuto il suo sacrificio personale, le contraddizioni esistenti nel pianeta scuola dell’obbligo con laica coerenza, al punto da scrivere nel testamento a proposito dei suoi ragazzi: “Ho voluto più bene a voi che a Dio. Ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto”.
Il suo operato si colloca sul piano dell’etica sociale e, in riferimento alle relative problematiche, è ancora attuale. Insegnare andando al cuore delle cose é il suo proposito per abituare ad esprimere concetti in modo chiaro e incisivo ed aiutare veramente chi è nel bisogno. Egli è convinto che la povertà peggiore consista nella deprivazione dell’istruzione, vale a dire della capacità di esprimersi; perciò ai poveri deve essere restituita prima di tutto la parola, premessa dalla quale parte la sua condanna della ricchezza in quanto truffaldina sottrazione del necessario ai meno fortunati. Egli si propone di lenire la sofferenza originata dall’ingiustizia sociale, di conseguenza contesta le avarizie dei ricchi, colpevoli anche quando usano le doti per coltivare il proprio benessere, mentre il prossimo soffre la fame. E’ in quest’ambito socio-politico che va inserito il dibattito circa l’utilità della sua lezione sulla scuola.
Quella di Barbiana, aderente alla vita, é veramente a tempo pieno perché tutto diventa occasione per apprendere e capire il mondo e il Vangelo. Don Milani accoglie i più diseredati, gli scarti si direbbe oggi, quelli cioè privi di alternative e rifiutati dalle scuole ufficiali. Il sacerdote non ha paura di sperimentare, non esita a mandare ragazzi da soli all’estero a studiare le lingue. E’ un metodo che richiama l’attenzione di molti, recatisi da lui e subito messi a insegnare ciò che conoscono ai ragazzi, sollecitati a far domande per soddisfare la loro sete di conoscenza e vincere timidezze contadine frutto di ataviche sottomissioni.
La notorietà di don Milani è legata alla vicenda di “L’obbedienza non è più una virtù”, risposta ad alcuni cappellani militari che avevano tacciato di viltà gli obiettori di coscienza. Egli rende concreto il messaggio del motto scelto per il suo impegno didattico: “I care”, “mi importa”, “mi faccio carico” ed invita a riflettere collegialmente sul primato della coscienza e sulla necessità di assunzione di responsabilità da parte del singolo nella società.
La bocciatura di due ragazzi di Barbiana all’esame d’ammissione alle scuole magistrali diventa l’occasione per scrivere “Lettera a una professoressa”, provocatoria disamina della scuola dell’obbligo, incapace di colmare, secondo quando prevede la Costituzione, gli svantaggi di chi vive in una famiglia povera di cultura e di risorse. Scritta insieme ai ragazzi e stampata nel 1967, ha vita propria dopo la morte del priore. Molto citata, poco letta, sovente misconosciuta, diventa l’icona della contestazione studentesca generando entusiasmi ma anche strumentalizzazioni per cui, frainteso, don Milani in alcuni ambienti è ancora tacciato di aver ispirato i guasti – veri o presunti – dell’istruzione contemporanea.
Molti hanno fatto riferimento ad alcuni passaggi della “Lettera” attribuendo ad essi un ruolo centrale nelle tesi del priore. Così si é sviluppato il dibattito circa la polemica contro l’insegnamento della grammatica alle elementari e alle medie. In realtà, per don Milani erano più battute polemiche allo scopo di richiamare l’attenzione che vere e proprie affermazioni relative alla teoria della didattica. Perno del suo messaggio è l’affermazione che la scuola è un diritto-dovere per la generalità dei bambini e dei ragazzi, tracciando un’evidente linea tra scuola dell’obbligo e università. Infatti, un’esperienza accademica poco selettiva, incapace quindi di esaltare il merito dei docenti e, di conseguenza, anche quello degli studenti, si rivela un carente strumento di mobilità sociale perché determina solo l’illusione di attingere i livelli superiori del sapere. La sua lezione si concentra perciò sull’esperienza che coinvolge l’infanzia, la fanciullezza e i primi anni giovanili ponendo l’accento, prima che sulla didattica, sul piano etico e teologico come prospettiva ed occasione perché i ricchi possano restituire ai poveri i propri privilegi e, primo fra tutti, quello del sapere. Per questa finalità s’impegna ingaggiando la sua battaglia da Barbiana, un “niente” – come egli stesso lo ha chiamato – trasformatosi però in punto di riferimento per mezza Europa. Perché ciò avvenisse egli ha accettato la punizione inflitta dall’autorità ecclesiastica trasformando quel luogo di sacrificio in occasione di salvezza personale pronto a celebrare l’idea-forza di una scuola strumento di giustizia sociale, occasione per testimoniare concretamente il suo sconfinato amore per i ragazzi.