«A principio dunque che cominciò seguitare la maniera di Giorgione, non avendo più che diciotto anni, fece il ritratto d’un gentiluomo da Ca’ Barbàrigo amico suo, che fu tenuto molto bello, essendo la somiglianza della carnagione propria e naturale, e sì ben distinti i capelli l’uno dall’altro, che si conterebbono, come anco si farebbono i punti d’un giubone di raso inargentato, che fece in quell’opera; insomma fu tenuto sì ben fatto e con tanta diligenza, che se Tiziano non vi avesse scritto in ombra il suo nome sarebbe stato tenuto opera di Giorgione».
Questo testo di Vasari accompagnava le foto di un multiplo di Sergio presente nel catalogo «Autodocumentazione», una mostra-ricognizione organizzata dal Sindacato Arti visive di Salerno nella ex chiesa di S. Apollonia nel lontano 1978. L’esercizio litografico riproduceva un olio del 1510 (ora presente alla National Gallery londinese) di Tiziano, che rappresenta per alcuni Ludovico Ariosto e per altri un gentiluomo padovano, politico e riformatore, Gerolamo Barbarigo. Nel quadro il corpo dell’uomo se ne sta di profilo con la schiena diritta, rivolta verso chi guarda; il volto è di tre quarti, con la parte destra in ombra. Contro uno sfondo nudo, il protagonista è ritratto nell’atto di girarsi per sorprendere chi lo sta guardando, come per sfida e per carpirne le intenzioni, prima di allontanarsi, uscendo sdegnosamente dal quadro. Bene: che si tratti di Ariosto o del gentiluomo veneto, poco importa, di certo c’è che lo sguardo, fiero, è proprio quello di Sergio: ve lo posso assicurare io che sono ogni giorno bellamente costretto a salutare queste cinque variazioni che, da più fi quarant’anni, incorniciano la porta sulla parete di uscita della mia casa.
Non accennerò all’importanza di quella rassegna che accoglieva cento e più artisti salernitani del linguaggio e dell’immagine, vincolati al soggetto e al sociale, se non per ricordare la presenza in essa di Bruna (Alfieri) con un esempio dei suoi fantocci in juta, per me appena scesi da un quadro di Grosz.
Negli anni a seguire i miei rapporti con Sergio sono stati occasionali e sporadici anche in virtù della sua nobile scelta stanziale contro il mio nomadismo plebeo. Poi, quattro anni fa, eccoci testa a testa a lavorare al suo diario (pestano) per immagini e parole Le stanze dell’eremita (in esergo, Giorgio Morandi: «La mia infanzia è semplice come tutta la mia vita, informata da un gran desiderio di star solo e di non essere seccato da nessuno»), un’opera visiva di puro bagliore, un turbinio allucinatorio per creatività e sapienza. Confesso che spesso, oggi, mi invento gesti di falsa modestia – ringraziando quanti si complimentano con me per il lavoro editoriale in tale impresa profuso -, omettendo di pronunziare il vero: non un editor, un grafico, un impaginatore, un correttore di bozze né alcun’altra delle figure professionali attive nelle mie edizioni han messo mano ad un’opera magnifica, solo perché Sergio la consegnò bell’e pronta, solo da stampare. E tuttavia, in luogo di chiedere venia, raddoppierò l’inganno pronunciando con emozione, e dunque quasi fosse mio, un breve (suo) apologo: «L’uccellino canta in dialetto una filastrocca ad orecchio, la civetta è capricciosa e ruba le parole del pittore disperse nell’albero di Giuda. Nel giardino di mele un asino recita antichi madrigali dal quaderno a quadretti della mia infanzia, paradiso di campagna senza metriche in cornice».
Francesco G. Forte