Le limpide, azzurre acque che si adagiano, con calma, sull’arenile di S. Maria di Castellabate, i rossi, struggenti tramonti che da questa località di mare si possono ammirare, non lasciano spazio a pensieri tristi: tutto è sereno, tutto è riconducibile ad un luogo da godere per i riposi estivi, per i silenzi invernali. Eppure di fronte a queste case tutte affacciate sul mare dei miti, si consumò l’ultima tragedia della seconda guerra mondiale, una tragedia che costò la vita a 51 marinai a bordo del sommergibile Velella e che poteva essere evitata se solo ci fosse stata una semplice informativa tra i comandi italiani.
A Santa Maria tutti ne sono a conoscenza, anche i più giovani, ma nessuno ne parla: gente di mare, questa, abituata a parlare poco, ma ad onorare per sempre i suoi morti, comunque essi abbiano abbandonato questo mondo.
La tragedia avvenne il 7 settembre 1943, quando, a richiamo di padre Dante, “Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e ‘ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio”.
In squadra con un altro sommergibile, il Benedetto Brin, e altre unità navali, il Velella aveva lasciato il porto di Napoli nel pomeriggio di quel giorno al comando del tenente di vascello Mario Patané, e con a bordo 5 altri ufficiali e 45 fra sottufficiali e marinai. L’ordine imperativo era l’esecuzione del “Piano Zeta”: bloccare con ogni mezzo l’ormai prevedibile sbarco alleato nel golfo di Salerno, tant’è che, sin dalle prime ore del mattino di quel 7 settembre 1943, nel tratto di mare antistante Punta Licosa, a circa 5 miglia a ovest del promontorio, stazionava il sommergibile inglese Shakespeare, con il compito di segnalare bracci di mare eventualmente minati dalla Marina Italiana e fungere da radiofaro per i convogli d’assalto. L’unità inglese aveva lasciato il porto di Algeri il 24 agosto 1943 e già il 30 agosto era entrato nel Golfo di Salerno. Da quel momento e per i giorni successivi ricercò campi minati marini individuandone uno, condusse ricognizioni con il periscopio, inviò per due notti in canoa unità di ricognizione sulle spiagge.
Il “Velella” era un sommergibile a doppio scafo, lungo 63,14 mt., largo 6,90 mt. e stazzava 810 tonnellate, più di 1.000 in immersione. Era armato di siluri, a prua come a poppa, ed aveva un cannone da 100mm nonché 4 mitragliatrici antiaeree. La propulsione era assicurata da motori FIAT, grazie ai quali il sommergibile poteva raggiungere velocità di 14 nodi in navigazione di superficie e di 8 nodi in immersione. Poteva raggiungere la profondità di meno 100 mt. Se vogliamo un gioiello per quei tempi, visto che i cantieri navali italiani erano adusi alla produzione di naviglio militare, stante le capacità tecniche e professionali di produzione. Il “Velella”, infatti, insieme ad un altro sommergibile, era stato commissionato ai cantieri navali di Monfalcone dalla Marina Militare del Portogallo. In corso d’opera, però, la commissione fu annullata per sopravvenute difficoltà economiche. Fu allora la Marina Militare Italiana ad assumersi la commessa, apportando alcune modifiche all’originario progetto portoghese, sì da rendere i due sommergibili adatti alle esigenze nazionali. Il “Velella” fu varato il 18 dicembre del 1936 e consegnato l’anno successivo. Da quel momento fu impegnato in diverse missioni nell’Egeo, in Mar Rosso e sulle coste africane, poi in Atlantico dove prese parte a numerosissime missioni. Allo scoppio della guerra il Velella fu impegnato in Mediterraneo, infestato da sommergibili nemici. Nell’estate del 1943 dovette contrastare lo sbarco degli alleati in Sicilia insieme a molte altre unità. Uscito indenne dall’attacco di un aerosilurante durante il trasferimento in Sicilia, il Velella si distinse nelle operazioni belliche. Colpito ma non affondato, dovette riparare in avaria nella base di Taranto.
Poi il 7 settembre 1943 il “Velella” lasciò il porto di Napoli insieme alle altre unità navali diretto nel golfo di Salerno proprio per l’imminente sbarco alleato.
Alle 19.53 circa i due sottomarini italiani, “Benedetto Brin” e “Velella”, naviganti in emersione ed alla distanza di circa un miglio l’uno dall’altro, passarono accanto al sommergibile britannico “Shakespeare”, uno per lato. Secondo il racconto del comandante inglese il Benedetto Brin non si distingueva sullo sfondo ormai scuro della costa rimanendo, pertanto, come protetto. Ben diversa, però, era la posizione del “Velella”, che navigava all’esterno e quindi la sua sagoma si stagliava contro gli ultimi bagliori del crepuscolo. Secondo il rapporto di bordo, erano circa le ore venti quando l’unità inglese lanciò contro il sommergibile italiano sei siluri, quattro dei quali andarono a segno. Altre testimonianze, però, riportano che il “Velella” fu colpito da un solo siluro che lo colò a picco in pochi istanti, versione, questa, che sembra la più verosimile: negli anni ’70 in quello specchio di mare un siluro di fabbricazione inglese si impigliò nella rete di un pescatore locale.
Si racconta, inoltre, che la sera di quel tragico 7 settembre a terra si udì una sola grande esplosione. Certamente impressiona il fatto che tutto l’equipaggio colò a picco in pochi minuti insieme al battello: non vi fu un solo superstite.
Un motorista dell’altro sommergibile ricorda: «Ero quella notte imbarcato sul Brin ed ero addetto alle macchine. Navigavamo in acque apparentemente tranquille, vicino alla costa e sulla soglia di casa (Pontecagnano). Noi ignoravamo di armistizi e di prossimi sbarchi e stando in emersione, ricaricavamo le batterie dei motori elettrici. Eravamo varie unità inviate da Napoli a pattugliare il golfo. Una improvvisa ostruzione ai tubi di alimentazione dei motori, fermò le macchine e dal Velella, comandato dal Tenente di Vascello Mario Patanè di Acireale, venne chiesto “alla voce”, per via del silenzio radio, perché ci eravamo fermati. Rispondemmo. di proseguire perché avremmo subito ripreso la navigazione. Pochi minuti dopo ci fu il siluramento e l’affondamento».
E fin qui tutto potrebbe rientrare in quel orribile gioco che è la guerra dove ogni uomo può in qualsiasi istante, terminare la sua storia di vita terrena. Qui, però, è la beffa del destino, che vuole il “Velella” l’ultima vittima di una guerra che ormai era nei giorni di armistizio. Cinque giorni prima dell’affondamento, infatti, il Generale Castellani a Cassibile, in provincia di Siracusa, aveva firmato il famoso armistizio dove l’Italia accettava la resa incondizionata agli Alleati e sanciva il suo disimpegno dall’alleanza con la Germania nazista di Adolf Hitler e l’inizio della campagna d’Italia e della Resistenza nella guerra di liberazione italiana contro il nazifascismo. Un armistizio di cui non fu data conoscenza al Comando della Regia Marina Militare, tant’è che all’intenzione manifestata dal Mari.co.som di procedere al “Piano Zeta” per contrastare lo sbarco angloamericano, il governo non sollevò, incredibilmente, alcuna obiezione. Alle 18,30 italiane dell’8 settembre 1943, a poche ore dall’affondamento del Velella, Radio Algeri diede al mondo la notizia dell’accordo di Cassibile tra il generale Giuseppe Castellano e l’omologo americano Dwight Eisenhower, firmato il precedente 3 settembre.
Il 9 settembre alle ore 00.30 circa, lo Shakespeare abbandonò il Golfo salernitano facendo rotta verso Algeri. Ma nelle primissime ore del 9 settembre 1943 ha pure inizio lo Sbarco di Salerno.
E qui si sarebbe conclusa la narrazione di un evento bellico svoltosi nelle acque antistanti la serena S. Maria di Castellabate, se nella seconda metà degli anni settanta del secolo scorso alcuni pescatori non si fossero lamentati con le autorità locali per danni alle loro reti che rimanevano impigliate in qualcosa probabilmente di metallico e tagliente, tornando in superficie a pezzi.
La mente di qualcuno riandò a quella lontana tragedia bellica o ai racconti dei più anziani e riemergevano dal mare i fantasmi di quell’episodio che vide inghiottito un sommergibile italiano con i 51 uomini di equipaggio, per la maggior parte tutti ventenni.
Fu così che la Marina inviò un dragamine ed una vecchia nave di salvataggio, per scandagliare i fondali nonché tentare di localizzare ed eventualmente portare in superficie il relitto: ogni ricerca risultò vana. La storia, però, rimaneva sospesa e qualcuno non ci stava: da quel momento non furono poche le iniziative pubbliche e private che tentarono di individuare il relitto del “Velella”, con la segreta speranza anche di recuperare qualche testimonianza e procedere alla costituzione di un museo che ricordasse, nel tempo, quell’inutile sacrificio di vite umane. Ogni iniziativa, però, sembrava andare a vuoto e nessun risultato concreto sembrava giungere dai fondali marini. Vi fu anche una interrogazione parlamentare, ma tutto sembrava come sepolto da quel mare azzurro che d’estate si riempie di bagnanti e di spensieratezza.
Ma il vuoto istituzionale non scoraggiò Carlo Pracchi, un motorista che era stato imbarcato sul Velella per 7 anni e che per un caso fortuito non era a bordo il giorno della tragedia: nel 1982, organizzò un raduno seguito poi da una grande cerimonia, prima ad Agropoli e poi a Santa Maria di Castellabate: era così stato riaperto un interesse attorno ad una vicenda che sembrava dimenticata per sempre. Successivamente il M.llo Carlo Mileo, presidente dell’A.N.M.I. di Castellabate, incrociò un gruppo di appassionati di immersioni e di esplorazioni di relitti, i quali si strinsero nell’entusiasmo di ricerca di colei che fu, da subito, anima e mente della intera ripresa di interessi: Rizia Ortolani. Così, quasi per incanto, il 13 maggio 2003, a distanza di sessant’anni, dalla rada di San Nicola a Mare prende il largo un peschereccio con a bordo strane attrezzature, borsoni, pesanti casse metalliche, cavi, computer, macchine fotografiche, videocamere, oggetti davvero inconsueti per una barca da pesca d’alto mare, e un gruppo di tecnici diretti a dieci miglia dalla costa con l’intento di scandagliare il fondo marino: era nata la “missione Velella”.
Dopo circa due ore di navigazione qualcosa apparve sull’ecografo: il deciso rilievo si sollevava chiaramente dal profondo e piatto fondale fangoso. Si preparò il sonar e altri strumenti: l’operazione non era facile sia per la profondità cui sembrava giacere il relitto e sia per le correnti marine, ma alla fine il “Velella” venne localizzato a 138 metri di profondità e circa 9 miglia da Punta Licosa. L’oblio della memoria storica si dissolveva nel nulla e per i familiari di quei 51 marinai d’Italia si ebbe la certezza di una tomba, quella più cara agli uomini di mare.
Più volte si è tentato il recupero del relitto o quanto meno di qualche testimonianza del battello o di qualche vittima, ma ogni tentativo si è arenato di fronte alle non poche difficoltà: la profondità elevata, le condizioni ambientati estremamente difficili, le correnti marine. Inoltre il relitto si presenta coricato su un fianco, seriamente danneggiato dal siluro inglese che lo affondò e da qualche probabile esplosione interna. Senza contare che giace sull’orlo di un burrone sottomarino, per cui si potrebbe anche rischiare che precipiti verso profondità ancora maggiori di quella dove ora giace.
Forse per alcuni anni viva è stata nella speranza di poter raccontare la storia del recupero, ma ora sembra che quella storia non potrà mai essere raccontata.
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