Il nome dell’albero del pesco deriva dal latino pomum persicum perché si riteneva che Alessandro Magno l’avesse portato in Grecia dalla Persia. Invece storicamente è stato accertato che gli alberi di pesco sono originari delle montagne a Sudovest della Cina, ai confini con il Tonchino e la Birmania.
Però si sa anche che già nel I secolo dopo cristo l’albero era coltivato in Italia, come testimoniano gli affreschi murali di Pompei. In Cina, poi, è considerato da millenni l’albero della immortalità, quasi come l’albero della vita del Paradiso Terrestre della Bibbia. Annunzia la primavera con i suoi fiori delicati di un bel colore rosato, che nella seconda metà di giugno si trasformano in frutti succosi e dolcissimi. Secondo il linguaggio ottocentesco dei sentimenti se si dona un ramo di pesco in fiore si dichiara ammirazione per il destinatario/a, che, a sua volta, ricambia con una totale ammirazione.
Il frutto soavemente vellutato e dai colori dolcemente e teneramente sfumati ha una sua bella storia letteraria.
Per Italo Calvino le pesche mature evocano le guance di una bella fanciulla in carne e appetitosa di grazia e di sorriso “O ragazza dalle guance di pesca/o ragazza dalle guance d’aurora / io vorrei ch a narrarti riesca/la mia vita all’età che tu hai ora”.
Libero De Libero, invece, la canta così: “la pesca colta per tua voglia/entra in gara con la pesca del tuo viso;/tu felice mi chiedi la scelta,/gelosa della mano che la tiene”.
Anch’io ho dedicato una breve lirica ad un ragazza giovanissima con il sorriso carico di seduzione ancora acerba. E in una poesia di alcuni anni fa la vidi e cantai così: “gocce d‘acqua/perle ai riverberi dei lampioni/Il tuo sorriso fresco. Denti bianchi/Eri pesca da mordere/dal sapore ancora acerbo/”.
Nei primi anni del Cinquecento Francesco Berni scrisse addirittura una canzone In lode delle pesche,esaltandone le proprietà medicinali terapeutiche: “o frutto sopra gli altri benedetto/. Buono innanzi, in mezzo e dietro il pasto…/son le pesche aperitive e cordiali,/saporite, gentil,ristorative/come le cose che hanno gli speziali”.
Chi percorre l’autostrada del sole verso Firenze già a nord di Roma è colpito dallo spettacolo festoso dei campi di girasole che lo accompagnano per un bel tragitto lungo l’alto Lazio, nell’Umbria e nella Toscana, che fu Etruria, da Chianciano e fino a Cortona ed Arezzo. Nel mese di giugno è una festa di girasoli con il loro volto ridente, giganti buoni che si pavoneggiano sullo stelo mobile e che disciplinatamente si volgono verso mezzogiorno inebriandosi di luce l’estate sembra incarnarsi in quelle enormi margarite cantate dai poeti.
Ecco come sono esaltate da Eugenio Montale in una sua bella poesia della raccolta Ossi di seppia: “Portami il girasole ch’io lo trapianti/nel mio terreno bruciato dal salino,/ e mostri tutti i giorni agli azzurri specchianti/del cielo l’ansietà del suo volto giallino./Tendono alla chiarità le cose oscure,/si esauriscono i corpi in un fluire/di tinte: queste in musiche. Svanire/è dunque la ventura delle venture./Portami tu la pianta che conduce/dove sorgono bionde trasparenze/e vapora la vita quale essenza;/portami il girasole impazzito di luce”. Ed in effetti questa pianta ama a tal punto la luce del sole da orientare la calatide verso il punto di maggiore illuminazione verso il sud. Non è originario dell’Europa ma dell’America: fu scoperto in Perù da Hernando Pizzarro, fratello di Francisco, che ne portò i semi in Spagna per farne dono a Filippo II. Nella civiltà inca era considerato il simbolo della sovranità: il dio re, personificazione terrena del Sole divino. Chi si aggira per le campagne del Cilento spesso è colpito dai fiori gialli della margaritona del girasole che arreda con la sua luce festosa nel vaso di terracotta davanti ad una casa di campagna o in un minuscolo giardino di paese nella convivenza disordinata ma colorata con basilico. Menta e ricciolina rampicante anch’essa impazzita di luce.