La sirena Leucosia non riuscì a sopravvivere alla vergogna di non aver sedotto l’astuto Ulisse e si suicidò lanciandosi in mare. Giove impietosito la trasformò in scoglio, che dà il nome ad uno degli angoli più suggestivi del Cilento, Punta Licosa, appunto.
La sua commovente storia di amore e morte mi ha ispirato questa lettera postuma pubblicata nel mio romanzo epistolare: “TERRE D’AMORE. Cilento e Costa D’Amalfi” (edizioni Delta3) premio di narrativa Francesco De Sanctis. La ripropongo come omaggio alla bellezza di una delle più suggestive località del mio Cilento.
Cara Leucosia,
tra le tracce dei temi per gli esami di maturità di qualche quinquennio fa, o giù di lì, ce n’era uno che mi colpì particolarmente. Parlava dell’Italia delle cento città e dei mille paesaggi e chiedeva ai giovani di registrare le proprie emozioni di fronte ai tanti spettacoli di arte e di natura che il nostro Paese riserva a stranieri ed indigeni. Fossi stato un maturando avrei di sicuro scelto quel tema ed avrei parlato di te, del tuo mito e di quel delizioso angolo di mondo che da te prese il nome.
Ti vidi per la prima volta, quando, fresco di studi, nella baldanza degli anni e nel candore dell’ingenuità, corsi la mia prima avventura d’amore con il cuore in subbuglio, che batteva forte in sintonia con il tonfo sordo dei remi di un vecchio gozzo preso a nolo da un pescatore compiacente ad Ogliastro Marina. M’era sirena d’amore una compagna di scuola trepida con sul viso luminoso la vampa di rossore della trasgressione. Il bacio innocente fu naufragio smemore ed eco sfumata ai canti maliardi. E mi ritrovai, novello Ulisse pellegrino, fragile ed indifeso alla sfida improvvisa dell’amore.
Sono ritornato di frequente, nel corso degli anni, a quel tuo letto di pietra, indisturbato regno di ricci e patelle, ricamato da ciuffi di pinastri battuti dal vento e rosi dal salmastro. Ci sono venuto nel tripudio del sole e nelle notti di luna, con il vento morbido che spruzzava fiori di schiuma sui corpi frementi degli amanti e con la nuvolaglia inquieta che disegnava ciclopiche montagne fragili ed angeli sterminatori all’inseguimento di improbabili trombe da giudizio universale. Ed il volo basso dei gabbiani gonfiava le onde e premoniva tempesta; e nel rabbuffo del mare riecheggiava profondo e misterioso il tuo lamento.
T’ho visto spesso danzare a pelo d’acqua nelle serene notti d’agosto, quando la luna nuova occhieggia e sorride dal davanzale del Monte Stella e ti regala festoni d’argento per ingioiellare la tua scogliera. E’ il momento magico della tua seduzione. Non c’è Ulisse, vecchio e nuovo, che possa resistere al tuo fascino, se la risacca dilava, languida, sciabole di scogli e luna e stelle pencolano sui pini fin sulla battigia. A prestarvi orecchio, il vento che sibila sugli ettari di costa pinetata narra antiche storie di fecondi commerci, con i monaci benedettini attivi mercanti e saggi gestori del piccolo porto. Oggi vi è traccia di ricordo nella monumentalità del castello, nella stupenda basilica, nei palazzi gentilizi, che dall’alto della collina di Castellabate rovesciano giù verso il mare di cobalto secoli di storia di un feudo prestigioso governato da abati colti ed intraprendenti, che disseminarono conventi e fondachi sui crinali delle colline e nelle rade di mare.
E fu baluardo contro pirati predoni, palestra di cultura, fucina di vecchi e nuovi mestieri, laboratorio di attività agricole e di preziose farmacopee.
Certo ne è passata di storia lungo la punta che prende il tuo nome, al largo di quel mare che ricorda e mitizza il fascino maliardo della tua seduzione! Quante storie di amori, di tradimenti, di trasgressioni hanno connotato l’evolversi di casati illustri che su di te hanno vantato domini! Quante liti per il tuo possesso, fino all’ultima che per decenni si è accesa ad intermittenza nei tribunali di mezza Italia ed ha visto contrapposte famiglie blasonate, principi e conti, antichi nobili e nuovi ricchi: i principi di Belmonte ed i conti Boroli-De Agostini, gli uni tesi a rincorrere successi nel mondo avvincente del turismo e dell’ospitalità di classe, gli altri a consolidare capitali nel settore dell’editoria!
A prestare orecchio al tuo canto, che sfuma dolce nelle notti di luna e si infrange e scheggia sugli scogli nei giorni di tempesta, c’è da rivivere la storia dell’antica Petilia, città fiorente in cima al Monte Stella, dove, tra l’altro, una raccolta e luminosa chiesetta testimonia percorsi di fede e rincorre sul filo dei canti popolari il raccordo di santuari mariani, che hanno segnato e, in parte, ancora segnano i pellegrinaggi del Cilento, della Basilicata e della Calabria: il Calpazio, il Gelbison, il Cervati, la Civitella, il Bulgheria, ecc. Eppure quel monte e quella chiesa che sono tanta parte della nostra storia feriscono il cielo con l’oltraggio di antenne di misteriosi osservatori, E lì, dove, secondo autorevoli testimonianze, concluse tragicamente la sua avventura generosa di libertà il liberto Spartaco, il cui disegno rivoluzionario fece tremare tutta Roma, oggi non c’è traccia di quel passaggio. Quella montagna andrebbe recuperata al suo grande ruolo di testimone di preziose pagine di storia civile e religiosa e sottratta alla rozza occupazione di discutibili postazioni paramilitari. E, forse, il tuo canto di malia e di seduzione tace di fronte a queste ferite di inciviltà, o Leucosia. E nel tuo letto di pietra dormi sonni profondi di abulia e di indifferenza di fronte allo spettacolo di nuovi barbari che nei mesi di vacanza con imbarcazioni piccole e grandi affollano ed oltraggiano il tuo specchio d’acqua, profanano l’incanto del tuo silenzio, incapaci, come sono, a subire il fascino della musica del mare, nel quale, tra l’altro, lasciano tracce ben visibili del loro incivile e vandalico passaggio.
Che l’ingorda civiltà dei consumi ti risparmi, dolce sirena dei miei verdi anni, pronuba generosa dei miei primi amori! E che la sensibilità delle nuove generazioni preservi ed esalti quella tenera colata di verde intenso che pini secolari fanno rotolare nello specchio d’acqua a corona del tuo sepolcro, dove nelle notti di luna di agosto canti ancora la tua dolente storia di amore e morte, di ninfa gabbata da un astuto viaggiatore, che, pur ferito dalla tua malia, volò via sulla zattera veloce e, forse, punto nel cuore, ti vide precipitare suicida per non sopravvivere alla sconfitta d’amore.
Continua, mia dolce ninfa, a cantare il tuo onore ferito in un angolo sublime del mio Cilento, dove verde di terra e turchese di mare trionfano nel tripudio del sole o si sposano nel sorriso d’argento della luna nuova.