L’educazione all’affettività a scuola è cosa buona e giusta?
L’educazione all’affettività a scuola è veramente cosa buona e giusta nell’azione di impedire il femminicidio? Il Riformista propone due posizioni contrapposte quelle di Maria Luisa Iavarone e Paolo Guzzanti. “Sarebbe meglio, secondo Beppe Severgnini, far tenere i corsi di educazione all’affettività dai docenti curriculari che conoscono i ragazzi”. Intanto, nel clima d’intensa sensibilizzazione contro la violenza di genere, nel napoletano, in un Liceo, è stato esposto un cartello dal contenuto sessista. Alla scuola si sta chiedendo troppo, ne è convinto Mario Boccola: “La scuola deve fare la scuola e la famiglia deve fare la famiglia. Punto. Non deve in alcun modo la famiglia sostituirsi alla scuola e il docente deve essere solo il docente e non il factotum delle “emergenze educative”. Affinché la scuola divenga buona scuola, secondo Crepet, bisogna considerare un modello educativo capace di integrare emotività e affetto, l’emozione come processo educativo.
L’educazione all’affettività a scuola è veramente cosa buona e giusta? Il Riformista pone questo quesito ai suoi lettori all’indomani del 25 novembre. Si, scrive Maria Luisa Iavarone, l’educazione all’affettività a scuola è giusta, ma servono pratiche per sviluppare empatia e consapevolezza emotiva. La stessa testata interrogandosi sulla stessa “materia” sostiene, con lo scritto di Paolo Guzzanti che l’educazione all’affettività a scuola è una scatola vuota, non ha possibilità di fermare i femminicidi. È vero, a volte per dir bene e per dir male ci vuol poco. La tristissima vicenda di Giulia Cecchettin, asserisce Maria Luisa Iavarone, docente universitaria, ha riacceso il dibattito sui femminicidi e dunque sulla necessità di individuare “soluzioni” anche educative a contrasto di tale fenomeno. Certamente l’ora di educazione all’affettività a scuola è una delle questioni sul tavolo che trova assolutamente il mio favore. Tuttavia, mi lascia perplessa l’idea che il Ministro Valditara abbia individuato in Alessandro Amadori (il consulente individuato all’organizzazione di tale formazione nelle scuole) l’interprete di tale delicatissimo compito. Amadori è autore di un volume intitolato “La Guerra dei sessi” che anche solo terminologicamente propone una contrapposizione competitiva tra i generi nel quale si sostiene che “il diavolo è anche donna”, insomma toni e perifrasi che non certo aiutano né preludono a toni costruttivi e concilianti. Sicuramente l’educazione sentimentale ed affettiva è uno degli aspetti essenziali dello sviluppo psicosociale dei giovani in formazione (maschi e femmine) ma andrebbe compresa ed insegnata attraverso pratiche formative attive di carattere più trasversale legate allo sviluppo dell’empatia, della consapevolezza emotiva, del pensiero critico e della pro-socialità. È profondamente immatura la “democrazia dei diritti di genere” in Italia e in tutto l’Occidente, secondo Iavarone, non garantisce affatto le donne. “La violenza di genere in Italia è un dato di fortissimo allarme sociale, scrive la professoressa Iavarone. Tra tutti gli omicidi commessi nel mondo in un caso su tre è vittima una donna, in Italia una donna ogni tre giorni trova morte violenta, quasi sempre per mano di un ex partner e i femminicidi, sempre nel nostro paese, superano i delitti di mafia. Gli attori di tutti i tipi di reati violenti sono tra il 60 e l’80% dei casi uomini ma i “sex offenders” sono quasi sempre maschi (oltre l’83%). È evidente che la violenza sulle donne risponde a un dato “di genere”. Affermazione apparentemente generica e pleonastica, ma in realtà la violenza sulle donne è un “genere di violenza” molto specifico, che impone un’analisi di carattere geo-sociale che riguarda la distribuzione del fenomeno a partire dalla sua lettura a livello globale. In tutto il mondo i femminicidi si commettono in misura minore in quei paesi in cui le donne sono meno emancipate (Africa, Cina, mondo arabo) mentre se ne commettono molti di più proprio in nei paesi in cui le donne sono culturalmente e socialmente più emancipate (America del nord, Europa Occidentale e Orientale, Israele). Proprio nei Paesi ad alto reddito il 25% delle donne (una su quattro) dichiara di aver subito violenza dal proprio compagno (Oms, WHO). Se ne deduce che il femminicidio è un reato delle società più “avanzate” e questo significa che sessismo e ruolizzazione sono paradossali “fattori di protezione” per la sicurezza delle donne. Come dire, se tu donna stai buona e tranquilla al tuo posto, nel tuo angoletto e non mi dai troppo fastidio, vivi più sicura e tranquilla, ma se ti vuoi emancipare, per carità nessuno te lo impedisce, però poi rischi che qualche uomo non tolleri la tua autonomia e dunque qualcosa ti può accadere”. Paolo Guzzanti, scrittore e giornalista, prende le distanze dalla Iavarone. L’educazione all’affettività nelle scuole, per Guzzanti, non è affatto una giusta proposta per fermare i femminicidi. A dire di Guzzanti servono gli Psichiatri. “Le lezioni previste non hanno la minima probabilità di fermare questi delitti. E non si capisce come possa venire in mente di non convocare per prime le uniche figure professionali in grado di capire che sono gli psichiatri. Non gli psicologi, attenzione, che non hanno alcuna esperienza clinica. Ma proprio gli psichiatri che ogni notte nei pronto soccorso trattano persone in preda alla furia o alla vendetta o alla depressione. È certamente cosa buona educare al rispetto reciproco e alla condanna di qualsiasi violenza, e se il disegno di legge presentato in Senato fosse in grado di addestrare al rispetto degli altri e alla repulsione di qualsiasi violenza o atto di aggressivo contro le donne sarebbe comunque un passo avanti. Invece la legge prevede, assurdamente, che un insegnante di scienze affiancato da un ginecologo improvvisino a soggetto. Sta qui l’indistruttibile debolezza di questa decisione politica a caccia di consenso facile. Manca l’oggetto, manca il contenuto, mancano i protocolli, manca il personale formato e vagliato per una operazione delicatissima che deve impedire i femminicidi, non a buttarla in cagnara e ovvietà. Anche far credere che il femminicidio sia una piaga dei nuovi tempi è un madornale errore di impostazione perché la storia dell’umanità in ogni epoca e luogo testimonia l’eternità di questo delitto”. La risposta poi in altra sede di altri, come Severgnini intorno alla educazione alle relazioni, se pure favorevole, si completa favorevolmente solo a questa condizione. Questa la strada indicata: “Sarebbe meglio far tenere i corsi dai docenti curriculari che conoscono i ragazzi”. Beppe Severgnini riflette sulla questione e mostra le sue perplessità e la sua idea correttiva. Lo fa spedito, a caldo, su Il Corriere della Sera. “L’adesione delle scuole e delle classi sarà volontaria, a guidare i gruppi di discussione sarà un docente formato con appositi corsi. Mah! Gli inglesi hanno un avverbio per definire questo modo di fare le cose: ‘half-heartedly’, con mezzo cuore”. “Perché affidare i corsi a docenti ad hoc che, inevitabilmente, conosceranno poco i ragazzi? Perché in Italia, appena abbiamo una buona idea, la soffochiamo con le complicazioni? Perché non affidare l’educazione sentimentale — e sessuale, oh yes — a un bravo insegnante disposto ad assumersi il compito? La materia è irrilevante: filosofia, italiano, storia, diritto, scienze naturali. Sapete chi ha svolto quel ruolo, durante i miei di liceo? L’insegnante di religione. Le ore di religione si trasformavano in furiosi dibattiti in cui noi cercavano approvazione per quello che avremmo fatto comunque. Ma, parlando di sesso, si parlava di morale, di rispetto, di ansie e di delusioni. Nessuno usciva dall’aula. I corridoi nelle ore di religione erano deserti. Siamo ancora in contatto. Sono convinto ci abbia aiutato a ragionare su noi stessi, e m’illudo che noi abbiamo aiutato lui. Un teologo, alle prese con venticinque adolescenti, diventa un pastore. Ecco la strada. La materia non conta, conta il cuore. Dell’insegnante e del ministro, caro Valditara. Il cuore dei ragazzi, invece, non è in discussione”. Restiamo dell’idea che nessuna scuola d’affetto è migliore del cuore. L’affetto non si insegna, l’affezione si vive e si coglie con la testimonianza del bene. Ciò sarà difficile in questo mondo ove lo stesso concetto dell’ “educazione”, è un termine svuotato di contenuto sia nelle famiglie che nella scuola. Proprio nella scuola, infatti, mentre ci si orienta nel bene è stato denunciato un messaggio volgare e sessista di uno studente sulla porta della classe, dopo il tema sulla violenza contro le donne. Nel clima d’intensa sensibilizzazione contro la violenza di genere, nel napoletano, in un Liceo, è stato esposto un cartello dal contenuto sessista. La notizia è stata riportata dal Mattino. Questo il messaggio: “Le donne non tutte sono t***é, ma tutte le t**** sono donne”. Trattasi di una provocazione risposta a un altro messaggio, “Non tutti gli uomini sono stupratori, ma tutti gli stupratori sono uomini”. È pur vero, d’altra parte, quanto scrive a Orizzontescuola.it, Mario Boccola, “La scuola deve fare la scuola e la famiglia deve fare la famiglia. Punto. Non deve in alcun modo la famiglia sostituirsi alla scuola e il docente deve essere solo il docente e non il factotum delle “emergenze educative”. E sempre il docente non può essere sociologo, psicologo, psichiatra, infermiere e quant’altro. Il docente deve fare soltanto la lezione, spiegare, interrogare, somministrare verifiche scritte, fare osservazioni sistematiche sull’andamento didattico-disciplinare degli alunni. E basta. Perché il suo compito si ferma lì. Invece stiamo assistendo ad un fenomeno allucinante di “catapultare” tutto sulla scuola e direttamente sulle spalle degli insegnanti le manchevolezze dei genitori, i quali non sapendo gestire i propri figli scaricano le responsabilità sulla scuola, la quale dovrebbe agire da “pompiere”. La triste vicenda di Giulia Cecchettin ha riportato ancor di più alla ribalta la funzione educativa della famiglia ed ora si vuole introdurre l’ora di affettività e dei sentimenti. Ma i docenti quotidianamente in classe dialogano con gli studenti di relazioni, di affettività attraverso lo studio della letteratura, della filosofia, della storia. Lo fanno tutti i giorni! La scuola non può fare tutto, perché da sola non ce la fa. C’è bisogno del sostegno delle famiglie sempre e comunque, altrimenti sarà sempre una sconfitta”. E affinché la scuola divenga buona scuola, secondo Crepet, bisogna considerare un modello educativo capace di integrare emotività e affetto, l’emozione come processo educativo. Occorre guardare e costruire una scuola, secondo Crepet, sicuramente come istituto educativo, ma anche come luogo di crescita emotiva e affettiva. Deve essere, a suo dire, tutta fatta e vissuta di esperienze emozionali. L’eventuale ora supplementare di emozione è insoddisfacente. È, invece, la modalità della percezione della scuola da parte degli studenti che assume rilevanza fondamentale. Le carte inutili lascia intendere lo psichiatra sono superate e superabili, voti e pagelle hanno perso la loro importanza; è il momento coinvolgere emotivamente i giovani. Le recenti riforme hanno impoverito l’esperienza della scuola. In sostanza Crepet auspica un modello educativo capace di integrare emotività e affetto, riconoscendo il valore dell’emozione come parte fondamentale del processo educativo.
elgr