Nel nome del suo “padre attuatore”, Mario Draghi, si aprì una crisi di governo, sfociata nella coalizione delle larghe intese.
Un’ occasione imperdibile per mettere a posto i ritardi infrastrutturali, le arretratezze tecnologiche di un Paese dove da decenni convivono varie anime, tra cui spicca quella di un Mezzogiorno arretrato, povero e spopolato, seppure in grado di fornire i suoi migliori cervelli all’altra Italia, quella ricca, progredita ed in continua espansione.
L’avvio di questo Piano, dalle aspettative messianiche e miracolistiche, ben presto si è scontrato con l’inadeguatezza di una macchina burocratica, dai Comuni, alle Regioni fino ai Ministeri, per troppi anni mortificata dalle politiche dei tagli di risorse economiche e professionali, in nome di un risanamento delle finanze pubbliche che ne ha ridotto la capacità di stare al passo con le esigenze di una società avanzata.
Con queste premesse, si è materializzato il rischio che, a beneficiare della fetta maggiore di questi fondi europei, che in massima parte “sono presi a debito”, quindi a carico della collettività, siano i principali “player” del settore delle utilities, energia, elettricità, trasporti.
Quel mondo che un tempo faceva capo alle Partecipazioni Statali e che oggi viene gestito da società per azioni, di cui alcune rispondono parzialmente al Tesoro.
Entità dotate di forte capacità di spesa, di strutture tecniche, in grado di imporsi sul mercato, anche in ragione di una condizione favorevole per la mancanza di una vera concorrenza. I nomi sono i soliti: ENI, Enel, Terna, RFI etc.
Proprio queste aziende hanno visto un grosso incremento dei ricavi e degli utili, dopo la pandemia e con lo scoppio del conflitto russo/ucraino, beneficiando dell’aumento del prezzo delle materie prime, scaricandone i costi sul mercato.
Il paradosso è che gli italiani si troveranno a dover pagare due volte: come cittadini, i fondi del PNRR a carico della collettività. Come utenti, i costi dei servizi espletati, se non in regime di monopolio, quanto meno di oligopolio…
È poi di questi giorni la notizia che il Governo stia pensando a delle nuove privatizzazioni per tentare di ridurre il debito pubblico, cresciuto in maniera esponenziale.
Come sempre, si parla delle reti, quelle poche rimaste ancora in mano pubblica: reti ferroviarie (Rfi) e società di trasporti (Trenitalia).
Suscita non poca perplessità l’idea che ci si debba indebitare per garantire dei ricchi profitti ai monopolisti privati di domani.
Come se la lezione di Autostrade, con le concessioni cedute troppo generosamente ai Benetton non abbia insegnato nulla.
Nel frattempo rimane “l’unità nazionale degli intenti”, se non nel sostegno allo stesso governo, quanto meno nell’assoluta uguaglianza di posizione degli schieramenti di destra e di sinistra sulle politiche di investimento nelle infrastrutture, sull’assenza di controlli severi e rigorosi verso una certa oligarchia di sistema.
Lo scenario sullo sfondo è quello di un divario ancora più evidente, senza che si realizzi quella tanto invocata coesione territoriale o peggio ancora, di una transizione ecologica, appannaggio solamente di chi ha la fortuna di trovarsi dalla parte giusta.