Il 21 marzo, primo giorno di primavera, abbiamo celebrato “La giornata internazionale delle foreste” su input delle Nazioni Unite per ricordare e riflettere sull’importanza della copertura forestale del nostro Pianeta Terra. Abbiamo, così, appreso che, tra il 2000 ed il 2013, la superficie delle “foreste vergini” è scesa di almeno il 7% e che il processo di deforestazione aumenta ed accelera in maniera preoccupante: tra il 2011 ed il 2013 è diventata tre volte superiore rispetto a 11 anni prima. Eppure il bosco resta un’oasi di vita, da difendere, conoscere ed esaltare per l’equilibrio dell’habitat. È uno di quei beni che tutti dovremmo apprezzare e difendere. E, a tal proposito, mi permetto di suggerire un vademecum di comportamento, ispirato all’etica della responsabilità e che potremmo sintetizzare in quattro verbi: CONOSCERE per amare, AMARE per difendere, DIFENDERE per PROMUOVERE. Ma sforziamoci di concentrare la nostra analisi sulla situazione del nostro Paese. La superficie dei boschi in Italia ammonta a 10.4677.533 kilometri quadrati, quella nella Campania è di 445.274 kilometri quadrati. Come tutti sanno, il Parco del Cilento, del Vallo di Diano e degli Alburni (che difficoltà scriverne soltanto il nome, che ubbidirà pure ad una vanità provinciale e municipalistica di orgoglio nominalistico, ma evidenzia anche quanto di più conflittuale ci possa essere con una corretta ed efficace logica della comunicazione!!!!!), è il più grande della nostra regione, ma anche uno dei più belli e più vasti d’Italia. È il più antropizzato e può vantare monti di straordinaria bellezza e di lussureggiante vegetazione, a pochi chilometri dal mare. E non a caso uno degli slogan promozionali più efficaci e meglio riusciti fu: Il Parco verde e blu: dal faggio al corallo. I monti sono sempre imponenti e belli con le foreste di faggio cariche di mistero e seduzione e dalle cui alture lo sguardo spazia fino al mare cobalto/blu di Licosa e Palinuro, nei cui fondali crescono colonie di corallo di buona qualità. In questa rubrica settimanale “LA NATURA HA UN’ANIMA” voglio proporre oggi alcune brevi riflessioni sull’albero del Faggio, che ha una sua sacralità esaltata dal mito oltre che dalle leggende popolari ed una sua nobiltà letteraria. Cominciamo da quest’ultima che può vantare due distici delle Bucoliche del grande Virgilio: “Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi/silvestrem tenui Musam meditaris avena! = Titiro, tu sdraiato all’ombra di un grande faggio/moduli una canzone boschereccia sull’umile zampogna”. La religiosità è presente in molti miti sia greci che latini, secondo i quali il faggio era un albero sacro a Giove ed i nostri Antenati ritenevano che inoltrarsi in una foresta di faggi era come penetrare in un gigantesco tempio dai tronchi simili a colonne, alti dai 20 ai 45 metri, dai rami molto alti, ed entrare in contatto con la divinità. Io questa sensazione l’ho vissuta ed interiorizzata nei miei vagabondaggi di scoperta d’amore sui monti del Parco. Ed, a proposito di sacralità e religiosità insieme, voglio riportare alcune considerazioni/riflessioni tratte dal “Viaggio nel Cilento” di Cosimo De Giorgi, il noto studioso pugliese, che, da un viaggio nella nostra terra fatto nella primavera del 1881, tirò fuori uno spaccato umano, antropologico, sociologico, storico ed ecologico di straordinario interesse e grande attualità”, come scrive Giuseppe Galzerano nella prefazione del libro, di cui è anche l’editore (3^ edizione). Ed ecco come De Giorgi descrive la scalata al Gelbison fatta il 14 giugno del 1881: “Il monte si avvolgeva in un bianco mantello di nubi che si sollevavano dalla valle… Quei faggi secolari parlano un misterioso linguaggio, sembrano granatieri da 50 a 60 metri di altezza ritti, duri e piantati lì tra l’ira dei turbini e degli uragani ed il ferro dei vandali disboscatori… E saliamo saliamo… Questo piccolo dicono “il vestito della Madonna” e narra una leggenda curiosa. Più su è il monte dei ciottoli e dei macigni trasportati dai pellegrini per penitenza e deposti a piè d’una croce e piegando a sinistra ci appare un’alta rupe che sorge quasi a picco (ed è una vera curiosità geologica) in cima alla quale sorge il Santuario della Madonna di Novi”. Le riflessioni di De Giorgi mi hanno acceso ricordi di infanzia lontana, quando accompagnai mamma nel pellegrinaggio, a piedi, da Trentinara al Gelbison e scoprii nomi e leggende di grande fascino, che interiorizzai e che per me bambino sapevano di sacralità: fiume freddo, lo manto re la maronna (un monolite su cui le intemperie della natura avevano scavato col lavorio di secoli, buchi e striature che la fantasia popolare aveva, per folclore sacralizzato, ribattezzato: “ago”, “ditale”, “filo” e “forbici” che la Madonna usava per cucire il suo manto). E tornano alla mente “la croce di Rofrano”, ”la ciampa re cavaddo” a volo d’abisso e a memoria di conversione di infedele. Così come ricordo nitidamente, tra l’altro, che i miei compaesani pellegrini sulla via del ritorno saccheggiavano rami di faggio, a cui attribuivano potere miracolistico e che, tornati al paese, conservavano come reliquie nelle proprie case o piantavano in campagna con chiari intenti propiziatori per i raccolti. Oh, la dolce poesia della religiosità popolare! Sulle montagne più note del Cilento ci sono sette santuari mariani dedicati ad altrettante madonne, che la fantasia popolare ha ribattezzato “le sette sorelle”. Sarebbe interessante se il Parco, in un rapporto di collaborazione feconda con le scuole, promuovesse viaggi di istruzione/scoperta delle nostre montagne sacre, che sono straordinari contenitori di specificità ambientali, geologiche, di flora e di fauna, oltre che di storia, di folclore e religiosità popolari. E mi sembra legittima una domanda/provocazione finale: Di queste iniziative se non si fa promotore il Parco chi lo deve fare?
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