Le Comunità Montane, come tutti gli enti pubblici istituzionali, sono state istituite per migliorare la vita delle donne e degli uomini che vivono nei territori che rappresentano organizzando meglio i servizi, tutelando il territorio, incentivando le attività economiche, garantendo i diritti dei cittadini più fragili.
Ogni regione ha avuto la possibilità di “interpretare” la del 3 dicembre 1971, n. 1102 e ora disciplinato dall’art. 27 del d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (https://it.wikipedia.org/wiki/Comunit%C3%A0_montana) che le istituì con apposite regolamenti regionali che le adattarono alle esigenze delle realtà montane presenti nei loro “confini”.
Per cui, ad alcune latitudini l’ente montano diventò un semplice polo di aggregazione dei comuni presenti in quelle aree, in altri si trasformarono in veri e propri enti economici indipendenti con strutture complesse che spesso si sovrapponevano a quelle dei comuni stessi che ne eleggevano gli organi di “governo” faccendone l’ennesimo centro di potere oltre che di spesa.
Nella regione Campania avvenne che anche comuni bagnati dal mare furono cooptati nell’elenco di quelli montani proprio per ampliare l’area di competenza oltre che le risorse messe a disposizione da parte della regione in base al numero dei residenti. Questa anomalia fu sanata nel 2014 che ridusse il numero dei consiglieri individuando nei sindaci i componenti di un organo esecutivo e un presidente.
C’è da dire che molte regioni le hanno abolite, in Campania resistono anche in ragione del fatto che hanno la responsabilità di organizzare gli idraulici forestali e il servizio antincendio che la regione affida ad esse.
In realtà è proprio per garantire un posto di lavoro a qualche migliaia di persone in regione che in Campania, a differenza di tante altre realtà nel Centro – Nord i cui organici sono sempre stati ridotti al minimo essenziale, che si è stiracchiata fino ad oggi la coperta dei finanziamenti regionali senza mai, però, stabilizzare il ruolo e le funzioni.
Infatti, nonostante decine di interventi tesi a tappare i buchi di bilancio che gli enti montani hanno accumulato nei decenni, i problemi di liquidità si sono puntualmente ribaltati proprio sull’elemento più debole della catena: gli operai; è di questi giorni l’audizione fatta in commissione agricoltura di alcuni rappresentanti degli operai precari storici per tentare di capire “il problema”.
Intanto, buona parte della problematica si è andata gradualmente, ma inesorabilmente, ridotta grazie allo scorrere del tempo che ha mandato in pensione buona parte degli operai. Si tratta di un’intera generazione che tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso riuscirono ad evitare la partenza verso regioni del nord Italia o verso nazioni europee che necessitavano di risorse umane per coprire ruoli nella scuola, agenzie delle entrate, sanità …
Quegli uomini e donne misero su famiglia, ebbero dei figli, curarono le piccole proprietà e assistettero gli anziani… insomma svolsero un ruolo di contenimento del fenomeno del decremento demografico che oggi è diventato drammatico per l’età media delle persone che vivono nei comuni montani della regione.
Purtroppo, il precariato che ha accompagnato l’esistenza di migliaia di persone, se pur ha dato loro la possibilità di continuare a vivere nei paese in cui la “nascita” li aveva destinati, ha anche prodotto storture nella loro esistenza dovendo sempre rincorrere quella tranquillità economica e, soprattutto, quella libertà di movimento sociale e politico che solo la stabilità lavorativa è in grado di garantire.
L’investimento fatto dallo “Stato” per tenere in vita degli enti montani a conti fatti, tra i costi e i vantaggi, possiamo dire che il bilancio è stato positivo. la loro esperienza è una base di partenza per aggiornare e individuare percorsi lavorativi di qualità in grado di trattenere o attrarre giovani disposti a “stabilizzarsi” nelle valli delle Alpi e degli Appennini dell’Italia.
Bartolo Scandizzo