di Giuseppe Liuccio
“Lotta continua a favore della biodiversità” è il grido/motto di Giannola Nonnino, che, anno dopo anno, accende i riflettori dell’interesse nazionale ed internazionale sul tema, segnalando e premiando personalità protagoniste del rilancio della cultura e della coltura della ruralità con il suo premio “NONNINO”, appunto, di caratura mondiale. Quest’anno l’ambito riconoscimento è stato conquistato, tra gli altri, da Isabella Dalla Ragione, che ha inventato e nobilitato una nuova professione. ”ARCHEOLOGA ARBOREA” .In una sua tenuta di 8 ettari nei pressi di Città di Castello tiene in vita e cura con amore circa 500 alberi “dimenticati” ed in via di estinzione, che rievocano ed esaltano le tradizioni agricole di alcune regioni italiane. E, così, riprendono vita e sapori le “mele a muso di bue”, quelle “a culo d’asino”, “i fichi dei frati zoccolanti”, le “pere fiorentine” e quelle “palombine”. Il fenomeno “degli alberi e dei frutti dimenticati” è presente in maniera preoccupante anche nel Cilento, dove “molte cultivar rischiano l’estinzione”. Questo è “l’anno dei cammini” e se si attrezzasse un minimo di senti eristica praticabile forse si potrebbero individuare e censire specificità e cultivar dimenticate o quasi tra l’indifferenza generale. E con loro rischia di scomparire una pagina straordinaria della nostra ruralità e della civiltà contadina Nei miei vagabondaggi estivi attraverso i paesi del Cilento mi capita spesso di fare percorsi ricchi di sorprese sorprendenti. L’ultima memorabile risale alla penultima estate Feci un viaggio a Felitto in compagnia dell’amico Donato Di Stasi che mi svelò le potenzialità inespresse di una strada di campagna tra Roccadaspide e Felitto, appunto, che, se minimamente attrezzata, potrebbe diventare uno dei percorsi consigliabili proprio per “l’anno dei cammini”. Nei pressi di Roccadaspide imboccammo una strada che bypassa il centro abitato e penetra nelle campagne che si stendono ricche di coltivi ai piedi del Vesalo, del Chianiello e dei monti di Capizzo e Magliano. Noi l’attraversammo non senza qualche difficoltà ed io mi incantai ai piccoli appezzamenti di proprietà contadina, che ha alimentato per secoli un’agricoltura di sussistenza, ed individuai cultivar oggi scomparse o quasi: pera “spadone” e “zuccaro” , prugne “spaccatizze” e gli orti con il pozzo per i fagioli al palo, i pomodori oblunghi per l’insalata, i peperoni, le melenzane, le cipolle, gli zucchini rampicanti all’abbraccio festoso di alberi di ulivi con esposizione orgogliosa di “cocozze” a palla, a bottiglia, a flauto, che brillavano di colori intensi e sfumati nella gloria della luce del tramonto. E confessai al mio amico, compagno di viaggio, che la ruralità con tutta la ricchezza dei valori della civiltà contadina è una risorsa da esaltare e valorizzare ed immettere nei circuiti dei mercati della promozione dei territori del nostro Cilento interno. Ad uno slargo una monumentale fontana, con tanto di abbeveratoio e “cannuoli”, che rovesciavano acqua freschissima e chiacchierina nella gittata piena della portata, costituiva un valore aggiunto, mentre una insegna indicava la presenza di un Santuario tra il verde della vegetazione di montagna come ulteriore risorsa per arricchire l’offerta del turismo rurale. A distanza di tempo rivado con la memoria a quella bella esperienza vissuta e ripenso ad alberi e frutti in via di estinzione e mi tornano in mente nomi familiari alla mia vita di fanciullo nelle campagne del paese. E ne sillabo i nomi con inflessioni che sono carezze d’amore, ”mele cotogne”, “fico zeule”, “troiane”, pere mastantuono, uva roia, mennavacca , sangenella, soreva pelose, cerasa acquarole, aulecene, le giuggiole ecc.; e mi rivengono in gola le delizie dei sapori che sanno di infanzia felice con la musica nel cuore. E penso che IL PARCO, se non fosse “in sonno”, tanto per mutuare il linguaggio dei massoni, potrebbe avere dinanzi un campo sconfinato da percorrere per iniziative di rilievo e di grande sviluppo per il territorio. Ma così non è. E mirituffo nella lettura delle ultime pagine di uno straordinario libro di Peter Wohlleben “La saggezza degli alberi”, che parla dell’aristocrazia degli alberi monumentali pieni di vita, antichissimi e rigogliosi. Ce ne sono tanti e tutti bellissimi anche nel nostro Parco. Meriterebbero di essere censiti e protetti. Sono un patrimonio inestimabile, Potrebbero essere una fonte di ricchezza e di crescita culturale, civile ed economica per il territorio. E penso anche alla colata lavica di verde intenso, cresciuto nel corso dei secoli sulle fiancate dei monti nell’intricato alternarsi di lecci e querce, ontani e cerri, carpini e lentischi, eriche e ginestre, roselline selvatiche e myricae, che popolano i versi di un poeta della statura di Giovanni Pascoli. Ma così non è. Sono fortemente tentato di suggerirne un elenco da sottoporre a tutti i componenti della governance della nostra area protetta, che dovrebbe farlo per compito statutario, Ma rimuovo l’idea, almeno per il momento, anche perché ho il vago, ma fondato, sospetto che da quelle parti le mie riflessioni non vengono lette affatto o sfogliate con malcelato fastidio; ed anche perché chi ha fatto la scelta di “vivere in sonno” difficilmente legge. Purtroppo! E, allora, mi rinchiudo malinconicamente in me stesso e vado con la memoria a quella indimenticabile esperienza del silenzio assorto ma fecondo di un tardo pomeriggio di fine luglio di qualche anno fa quando ebbi paura/rispetto sacro finanche di parlare per non profanare il regno di ninfe e satiri, gnomi e fate che di sicuro popolano gli anfratti segreti di campagne e boschi. Oh, la sacralità della poesia della civiltà contadina!