A leggere il titolo del pamphlet, poco più di 60 pagine con tre racconti di Massimo Bignardi e fotografie di Corradino Pellecchia, edizioni Gutenberg, “Il canto del silenzio” immediato il pensiero va a quei riti penitenziali che tra il giovedì e la sera del venerdì santo si consumano a Minori, paese di vacanze, ma che sa tacere di fronte al grande mistero della Redenzione.
Riti che si snodano per sentieri erti, gradini arrampicati lungo crinali di costa sui quali sovrasta il verde e giallo dei limoneti e il viola fogliato dell’albero di giuda. Un rito senza tempo, che da secoli si compie ogni anno in quei giorni in cui la Chiesa ricorda la morte e la resurrezione del Cristo. Ed è in quelle ore che succedono alla messa in “Cœna Domini” che parte la processione dei battenti per le vie di Minori, per terminare a notte fonda e riprendere ancor prima dell’alba del successivo venerdì santo. Alto, nel cielo costiero, s’alza il canto dei battenti: “Sento l’amaro pianto / della dolente Madre / che gira tra le squadre / in cerca del suo Ben”. Tutto tace, anche la risacca zittisce, e la notte s’illumina di mille, rosse fiammelle. E’ un antico “discanto” eseguito con lenta scansione nell’incedere processionale: “Sento l’amato Figlio / che dice: Madre addio, / più fier del dolor mio / il tuo mi passa il sen”.
Un racconto struggente, che Corradino Pellecchia ha, negli anni, fermato con i suoi scatti fotografici e Massimo Bignardi ha raccontato con tre brevi memorie di un tempo che fu, ma che ancora esiste e si perpetua nella memoria e nella vita di una comunità.
In una nota introduttiva, Bignardi e Pellecchia ricordano che le immagini e i tre racconti raccolti nella pubblicazione «non sono nati assieme, o meglio, non sono il risultato di un progetto unitario. Come spesso accade tra due amici che si raccontano delle proprie esperienze di lavoro, viene fuori qualcosa che appartiene a entrambi». E questo potrebbe bastare per giustificare una pubblicazione di siffatta levatura, perché è una narrazione che appartiene al popolo costiero, quello di quell’ansa del golfo che da Vietri sul Mare si snoda sino a Positano, salendo su per i Monti Lattari dove svettano Ravello, Scala, Tramonti, Furone.
Luoghi che vivono sotto lo stesso cielo costiero, che vengono accomunati in quel venerdì di passione dalla ritualità della schiodazione di Positano, della processione del Cristo morto seguito dalla Madre Addolorata. Cantano gli incappucciati nel bianco vestito cinto da rozza corda a memoria di flagellazione: “Priva del caro Figlio / Madre, tu sei restata / afflitta e sconsolata / immersa nel dolor”. Nel silenzio totale, impertinente è lo scatto della fotocamera di Corradino che scruta gli occhi dei battenti attraverso i fori del cappuccio, che racconta la teoria dei ragazzi di bianco vestiti, portatori di lampioni, di ceri, dei simboli della passione. E ferma l’attimo del canto di quei confratelli disposti a cerchio in una piazzetta-sagrato, nuvole bianche nella diafana luce del giorno che sorge sui maceri di limoni, sulla liquida superficie azzurra del sottostante mare: s’alza la voce solista, si accodano le altre in un intreccio polifonico di grande suggestione.
Anno dopo anno, per lungo tempo, Corradino, col garbo discreto che lo contraddistingue, si è fermato sulla soglia del futuro al quale ha donato quegli attimi nel suo bianco e nero, è il passo inconfondibile dei battenti, l’incedere della processione, la nuda croce nera con il bianco panno pendente: ed è pathos, intimo, struggente.
Nulla di rispondente nei tre racconti di Massimo Bignardi, narrazione che viaggia sull’onda di diverse emozioni provate da ragazzo, poi da giovane, quindi da adulto, quasi un voler mettere a fuoco di volta in volta un aspetto, una sensazione, una emozione, una meditazione su un vissuto costiero. In fondo Bignardi ricorda che in questi luoghi, in quei giorni basta un camice bianco, un cappuccio, un cilicio da cingere in vita e si è dentro il rito, la penitenza non solo singola, ma di un intero paese raccolto in quel manipolo di uomini in processione su salite a gradini, muri a secco di pietre a contenimento di maceri odorosi di limoni. Scrive Bignardi: «Il vociare, gli occhi lucidi delle donne, il vaporoso biancore dei camici, gli sguardi che la fede vela di mistero è quell’istante in cui la comunità si ritrova tutta nel dolore». Tra le pagine di testo di Bignardi scorrono le immagini di Pellecchia, che coglie, blocca, consegna alla storia l’attimo intenso di un rito, un volto su cui traspare la fatica, la tensione del canto di preghiera. Intanto sulle porte delle case “pendono” le palme «un intreccio di foglie bianche – riprende Bignardi dalla memoria – sottili come vele e di nastri colorati», arabeschi che un tempo erano a ricordare che la Pasqua era vicina.
Anche se formatisi in modo autonomo e per vie diverse, testo e foto si integrano in questa pubblicazione di rara emozione e tutto appare nella memoria di ognuno degli autori come le immagini riflesse in uno specchio convesso posto in curva a guadare i due sensi stradali. Scrive Bignardi: «Al centro della curva uno specchio convesso rimanda le immagini, registrando il loro movimento… entrano sia da sinistra che da destra: piccole, lontane, ma che man mano acquistano forma, riconoscibilità, fino a farsi ciascuna protagonista della scena». Ma a differenza dello specchio dalla scena della memoria, personale e collettiva, non scompaiono le immagini che Corradino Pellecchia ha fermato, conservato con cura, consegnate ad un libro. Sono quelle della processione del Cristo morto le ultime foto de “Il canto del silenzio”: lo scatto di una foto e l’attimo si ferma nella memoria, nell’animo, nel tempo della storia.
Vito Pinto