di Bartolo Scandizzo Se pensiamo alla montagna, immaginiamo prati verdi, vacche al pascolo e profumo di erba appena tagliata, ma tutti sappiamo che purtroppo non è sempre così. Non è così perché troppo spesso montagna significa spopolamento, abbandono dei terreni ed erosione ambientale. Per cui è facile prevedere che la desertificazione delle montagne è direttamente collegata al decremento demografico dei paesi di montagna. Una tendenza che bisogna invertire. In questo caso misure politiche e finanziamenti pubblici spesi in modo intelligente possono essere il volano di un’economia virtuosa e di mantenimento dei territori, anche di quelli più marginali e difficili. Finora, molto è stato speso tramite vari soggetti istituzionali investiti o accreditatisi consumando risorse senza cogliere in pieno l’obiettivo: dare slancio all’economia delle comunità di montagna. A cominciare dal Parco Nazionale del Cilento , Diano e Alburni che pure ha investito tanto sia con il progetto Fagus, sia con l’acquisto, ristrutturazione e mancata messa a reddito di aree ed edifici (circa 100 milioni di euro); addirittura è stata immaginata e messe delle tabelle di una fantomatica via Istimica! per continuare con i Gal (Gruppo di azione locale). Anche in questo caso, a fronte di alcune iniziative atte a richiamare turisti (Raduno nazionale ed europeo della federazione escursionisti, altre, a decine, sono state del tutto autoreferenziali. L’elenco potrebbe continuare, ma basta ripassare le pagine del nostro e di altri giornali locali e non, per rendersi conto di quanto altisonanti siano stati i proclami e di come sia stato corto il “fiato” del loro riverbero tra i piccoli borghi di montagna … La strada da percorrere in futuro, come sta fortunatamente facendo anche un angolo della nostra Italia l’Alto Adige, sta, unitamente alle risorse, nel piano di sviluppo 2014-2020, la Regione Campania deve destinare una parte delle risorse che la Politica agricola comune europea distribuisce agli agricoltori (normalmente secondo un criterio che tiene in considerazione dimensioni e produttività) specificamente per sostenere i maggiori costi di chi opere in montagna come gli allevatori, gli agricoltori che coltivano prodotti di nicchia e le piccole realtà che accolgono turisti hanno necessità di compensare gli svantaggi logistici nella consegna di latte, delle produzioni agricole e per tenere aperti strutture ricettive e piccoli ristoranti di qualità nelle zone di montagna: come ha già deliberato la Provincia autonoma di Bolzano. In altri termini, i produttori (o le cooperative di produttori) di alta montagna avranno diritto a un fondo di compensazione che contribuirà a coprire le maggiori spese sostenute per portare il latte a valle e immetterlo sul mercato rispetto ai produttori di pianura. Al di là della portata economica complessivamente limitata del provvedimento, questa operazione ha un forte valore politico e simbolico, perché per la prima volta si ammette che produrre in zone marginali ha costi maggiori e che questi costi non possono essere lasciati in mano al mercato, che ovviamente non li riconosce e dunque non è disposto a pagare di più per il prodotto. Non solo, ma il fatto che questa misura non sia stata considerata lesiva della libera concorrenza da parte della Commissione europea, normalmente estremamente severa in casi del genere, significa che il riconoscimento di questo scompenso e della necessità di colmarlo è considerato giusto e in linea con i principi che animano la Pac (Politica Agricola Comune). Nessuno può chiedere ai nostri produttori di lavorare in perdita ancora a lungo! La questione è complessa, ma è evidente che l’esperimento di Bolzano può costituire un precedente politicamente interessante per provare a cambiare le attuali logiche di finanziamento a pioggia spesso basate sulle dimensioni delle aziende, per passare a un sistema premiante che parifichi le condizioni di accesso al mercato in modo che tutti gli attori partano dallo stesso livello. Anche perché, nel regolamento della Provincia di Bolzano, è previsto che, per ottenere gli aiuti, i produttori si devono impegnare ad utilizzare procedure che aiutino a mantenere viva la montagna e a proteggerne l’ambiente. Ecco allora che questo diventa un bel modo per cercare di arginare lo spopolamento delle montagne, troppo spesso abbandonate perché non in grado di offrire redditi adeguati e soddisfazioni professionali ed economiche ai giovani (e in verità non solo a loro). Che si trovano così costretti a “scendere a valle” per costruirsi un futuro. Non va dimenticato, a questo proposito, che tenere vivi i piccoli allevamenti di montagna significa non solo consentire ad attività economiche importanti di sopravvivere, ma anche e soprattutto salvaguardare un presidio fondamentale sul territorio, garantendone il mantenimento dal punto di vista idrogeologico, paesaggistico e, sempre più, anche turistico. Perché gli allevatori di montagna fanno anche questo, oltre a prendersi cura dei loro greggi e mandrie. E allora è arrivato il momento di iniziare a ragionare in modo nuovo, costruendo prospettive anche nei territori più difficili. Si tratta della terra dei padri di migliaia di famiglie che hanno abbandonato le Valli del Calore, Alburni, Alenzo, Mingardo, Bussento … conquistandosi un posto “al sole” delle pianure e dei paesi della costa. Lo dobbiamo fare per dare un futuro a chi è rimasto e, soprattutto, per evitare di doverci pentire del disastro sociale, patrimoniale e ambientale che si prospetta all’orizzonte.
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