La nostra normalità è stata schiacciata dalla firma del primo decreto. Forse anche prima, quando eravamo tutti a caccia dell’untore. O prima ancora, quando abbiamo temuto di poter essere contagiati. E così alla notizia dei primi morti, l’altro è divenuto un ‘caso’ sospetto. È bene non avvicinarsi, ci siamo detti. Tant’è che cambiamo strada per paura che qualche gocciolina ci infetti. Ci rechiamo al supermercato nelle ore meno affollate. Ci affanniamo tra gli scaffali pur di non scontrarci. Scappiamo, temiamo gli abbracci. Così con la testa china ci siamo chiusi nel nostro silenzio. A pregare che dal tg arrivino notizie confortanti.
Il colpo più duro è stato leggere “Stop agli spostamenti”; “Tutte le regioni diventano zona protetta”. Per un momento, però, ci siamo sentiti uniti. Uniti dallo stesso destino: esseri umani, aggrappati a qualche misera zattera pur di non affogare.
«Dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa – annunciò il presidente del consiglio, Giuseppe Conte – per il bene dell’Italia e cambiare abitudini». Così, a partire dall’8 marzo, ovunque sono stati proibiti gli assembramenti. Dopo qualche giorno, l’OMS ha dichiarato ‘è pandemia’. Ne eravamo tutti consapevoli, eppure prenderne coscienza ha aumentato timori e sconforto. I contagi salgono e nel frattempo il governo blocca bar e ristoranti. Così se una parte dell’Italia abbassa le saracinesche; l’altra continua ad alzarsi a qualsiasi ora della notte per garantirci i servizi essenziali. Se le nostre auto sono ferme in garage; quelle di polizia, netturbini, operatori continuano a vagare per le città. Città isolate, in cui il rumore dei tacchi è assordante. In cui mamma anatra e i suoi anatroccoli passeggiano indisturbati. Se molti dipendenti di azienda sono stati graziati e lavorano in smart working, c’è una parte d’Italia che si sacrifica. Tutte le mattine, mentre beve il suo caffè, ingoia ansia e paura. Dovrà indossare una mascherina, fare attenzione a non toccarsi il viso, infilare i guanti, controllare di avere abbastanza disinfettante. Recarsi tra gli scaffali di un supermercato; dietro al bancone di una farmacia; impastare il pane; dare coraggio ad un paziente; analizzare tamponi in laboratorio.
Se le luci dei locali notturni sono spente, quelle delle stanze degli ospedali rimangono accese. Così, quella luce fioca si mischia alla candeggina e alle lacrime di chi attende in corsia. Per poi tornare a casa, sfilare guanti e mascherina con cautela, decidere di non abbracciare i propri figli. Far capire loro perché non si può, perché non è il momento di fare i capricci. Se una parte osserva il mondo da una finestra, l’altra subisce una folla incontrollata. Si corre per accaparrarsi i farmaci essenziali. Ma anche per garantirsi scorte in caso di ulteriori strette. File distanziate con scotch rosso. Poi barriere protettive. Il plexiglass ha finito per distruggere quel poco di rapporto umano che avevamo col commerciante. Lo scambio di qualche battuta si è arrestato perché il cliente successivo attende fuori. La cassiera è irascibile, preferirebbe che la spesa si facesse online. Preferirebbe non guadagnare pur di non essere accerchiata dai clienti. Divenuti ormai portatori di virus.
E così la tristezza ha preso il posto dei sorrisi. E le rughe cominciano a farsi più fitte. Cosa importa più dei segni del tempo? È l’ampia maschera da sub a segnare il viso. A creare rossori, croste, prurito. Lo sanno bene in ospedale. Sanno bene che è necessario avere doppio paio di guanti e tute da supereroi. Sanno bene che prendere un caffè alla macchinetta significherebbe sprecare quel poco materiale a disposizione. Lo sanno bene medici, infermieri, operatori. Sono stati i primi a fare i conti con il nemico invisibile. I primi a dover scegliere come agire, quali medicinali somministrare. I primi, privi di caschi protettivi, a lottare contro la morte. Gli unici a poter dare sollievo a ciò che noi non vediamo. No, perché non sappiamo in quelle camere cosa avviene. Non sappiamo, nel momento in cui ci danno coraggio, cosa provano. Abbiamo visto corridoi affollati. Pazienti, in alcuni casi, stesi a terra. Ma la realtà, spesso, è diversa da ciò che si sceglie di mostrare. Perché quel lasso di tempo in cui ci si sente tra la vita e la morte rimane bloccato tra quelle pareti. Rimane impresso negli occhi di chi, nonostante il cuore infranto, ti accarezza e ti sussurra di non avere paura. Eppure abbiamo avuto modo di incontrare i loro occhi. La loro voce è rotta dal pianto. I loro corpi sono afflitti da stanchezza e sofferenza.
Lo ritrae bene la foto che ho scelto. Dovremmo conoscerla tutti. Spopola sul web da settimane. Lei è Elena, infermiera dell’ospedale di Cremona. Sfinita, si addormenta sulla tastiera del computer. Quei lacci, attraversano il capo e serrano il suo viso. Dopo qualche giorno dallo scatto, si ammala anche lei. Ora sta bene, desidera tornare in corsia. Migliaia di foto stanno facendo il giro del mondo. Sono divenute simbolo di forza ed estrema umanità. Si è utilizzato, impropriamente, il termine ‘eroi’. Gli eroi lasciamoli alla mitologia. Si tratta pur sempre di uomini, che in nome della missione alla quale sono chiamati rischiano la vita. Uomini, come tutti gli altri, che andrebbero tutelati. Uomini che continuano a svolgere la loro attività ‘normalmente’. Uomini che non possono scegliere di rimanere a casa. Per loro stessa inclinazione si recano in trincea e provano a salvare le nostre vite. Lo dimostrano i tanti che hanno risposto al bando per reclutare 500 infermieri volontari. Nurse24.it, quotidiano sanitario nazionale, riporta: «Hanno risposto in 9.448 alla chiamata della Protezione civile per dare supporto, aiuto e collaborazione professionale ai colleghi delle zone d’Italia dove c’è il maggior numero di contagi e morti per Covid-19, quasi venti volte di più della richiesta». «I posti sono solo 500 – afferma Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche – e loro lo hanno sempre saputo, ma la voglia di esserci, di dare supporto a chi ha bisogno è più forte della consapevolezza che non tutti potranno essere lì». Non dimentichiamo però che «tra gli infermieri c’è chi muore di Covid-19 (i positivi sono circa 4mila) per assistere ed essere vicino ai pazienti, ma lo fa comunque senza il minimo tentennamento». Il loro lavoro continua, il contagio pure. Ma non si può morire perché non ci sono abbastanza protezioni.
Anais Di Stefano