La strada a fondovalle tra Laurino e Piaggine alterna tratti ombreggianti ad aperture a trionfo di sole. E castagni e bosco cedono spesso il posto a campi coltivati. Il fiume scompare e riaffiora, squilla alla luce o si accovaccia nell’umbratilità della vegetazione riparia. In fondo il Cervati incombe con il suo carico di bellezza, di mistero e di paure. Mi pulsano nella mente i versi di Alfonso Gatto, compianto Amico Maestro “Dentro il bosco che medita nei verdi/chiusi dell’ombra e punta in alto i rami/in quel tessere fitto di richiami,/di silenzi improvvisi, dove perdi/memoria incamminato nell’ascolto,/ vedere è solo credere ai tuoi occhi”… Lo accompagnai da queste parti alla fine degli anni sessanta del secolo scorso. Rendemmo omaggio alla civiltà di un paese, Piaggine, che aveva salvato da morte sicura un’aquila reale ed aveva improvvisato, nell’aula consiliare,, una sorta di “infermeria” per l’augusto pennuto. I suoi eredi volteggiano ancora sulle alture a corteggiare, nella stagione giusta, pianori profumati di lavanda o planano, da dominatori, sulle colate verdi delle faggete a scivolo di forre per risalire poi, ad azzurro di cielo lustrato da uno straccio di nuvola in fuga di vento. Oggi alla vigilia di una Pasqua con la neve, c’è, a sprazzi, lo stesso cielo degli occhi di Gatto, quello stupito ed assorto, intenso e misterioso, caldo e contagioso dei Grandi Spiriti. E per miracoloso transfert d’amore mi accompagna ancora la sua voce, mentre il cuore mi si gonfia di emozione allo spettacolo del Palazzo Ducale di Laurino che, alle spalle, occhieggia, possente, in bilico sulla rupe a dominio di vallata.
Sulla destra fanno capolino, lustri di sole pallido, i tetti rossi delle case di Vallle dell’Angelo sa scivolo di vallata con ferita di fiume a dilavare i ciottoli di letto. Lassù sull’Ausinito, nella grotta aperta ad orizzonti dì infinito, l’Angelo che dà il nome alla contrada testimonia dominio di Longobardi che trasferirono nel culto micaelicio la ritualità del dio Odino. Riaffiora nel verde di campagna a ricamo di arabeschi da scialo di fioritura di ciliegi, peri e meli il campanile della Chiesa Madre, arioso nella luce a riecheggiare il culto di San Barbato, che, con libro, mitria e pastorale, benedice e veglia case e campagne e attende la festa di fine luglio per liberarsi dal carcere della nicchia e sfilare processionante nella danza dei portatori a fuoco di granate, sprillate di luminarie ad archi, a ritmo di banda a lacerar silenzi di montagna a stupore di volpi e ghiandaie spaurite a ricovero di macchia.
Di fronte il Cervati, a volte imbronciato con quel turbante di nuvole sul cocuzzolo, più spesso con il sole a rifrangenza del bianco della neve !l tempo per attrezzarci di racchette e sci di fondo e via su per i tornanti comodi con il variare della vegetazione ad ogni pianoro. Ci fanno da guida Peppino D’Amico e Peppino Musto, che, dipendenti della Comunità Montana, professionali, motivati e disponibili, amano la montagna e ne conoscono segreti di flora e fauna e ne svelano mi steri e fascino di tradizioni. La cupola di un ciliegio in fiore è saluto festoso e profumato tra i castagneti pedemontani che sfidano il freddo di una primavera di neve nel tenerume delle prime gemme. Qualche contadino a recupero di memoria familiare e collettiva, ha valorizzato il vecchio stazzo con arredo di nocelleto a filari geometrici, a petto di collina. Più su un allevamento di cavalli allo stato brado rianima pendii dirupanti, dove è difficile stabilire il limite di demarcazione tra campagna coltivata e bosco intricato regno del lupo. Una coppia di upupe in amore è piroettare colorato sui tetti diroccati di una casa abbandonata ad abbraccio di rovi. È la grazia segreta della montagna nel pispolìo di voli ad ariosa conquista di spazi infiniti. Sono i “galletti di montagna” sottolineano le due preziose guide; ed io mi incanto a quelle creste screziate che fuggono ebbre e gelose di libertà e schive finanche di un clic di vanità della macchina fotografica
Sulla sinistra il Monte Vivo mostra, in un improvviso fascio di sole, fiancate a carico di neve, là dove una cappella votiva esalta pellegrinaggi a propiziazione di grazie di contadini e pastori. Questa è “la tempa del trifoglio” sussurra Bartolo Scandizzo a squarciare memorie di passato con gli stenti della fatica del vivere alla coltivazione di orzo e patate con l’eco dei racconti di famiglia su presunti tesori nascosti nelle grotte o seppelliti nel ventre della terra.
Il Calore, che si ingrosserà con l’apporto di torrenti e fiumiciattoli e raccoglierà storia e storie dei paesi della valle prima di fondersi e confondersi con il Sele nella piana di Altavilla, quassù è poco più che un rigagnolo che spumeggia trai sassi, calando giù dalle sorgenti della Festola, nella nuvolaglia densa, oggi, sulla vetta del gigante Cervati, s’inforra sotto ponticelli arditi, riemerge nella trina di sorriso delle acque e canta solitario l’inno di libertà tra flora e fauna ripariale, a volte rada, più spesso intricata. È musica della natura il corso tortuoso spesso, lineare qualche volta, cristallino sempre. E l’acqua sciaborda abbondante nei fossati a bordo di carrareccia, dove esplode il riso delle primule a screziare tappeti gialli nel verde della fienagione spontanea. Ancora un tornante a conquista ardita di fuoristrada con la neve a pavesare di candidi tappeti i declivi ed eccoci alla “Fontana dei caciocavalli”, il primo ed il più accessibile dei rifugi che rievoca, nel nome, lavoro dì paziente e sapiente di pastori a cagliatura di saporito e pastoso formaggio di alpeggio. C’è sinfonia di messaggi nel silenzio assorto, rotto solo dal tonfo delle scarpe che affonda nella neve soffice. Ha una sua voce profonda e, misteriosa la natura in questo santuario “en plein air”, dove una selva di faggi è disseminazione a raggiera o saliscendi di candelabri a perforazione di cielo. Qui hai ritegno finanche a parlare per non profanare la sacralità che conquista ed avvolge e ti penetra fin nel profondo. E qualche soffio lieve di brezza è eco di sussurri di elfi, fate e gnomi in segreti convegni d’amore sui pianori, Se chiudi gli occhi e presti orecchio ai racconti della tradizione ti arrivano i canti di notti all’addiaccio dal “Piano degli zingari” dove uomini e bestie facevano sosta prima discendere a valle. Venivano dall’altro versante, da Monte San Giacomo, a popolare le fiere di bestiame per il mercato/baratto di ovini e caprini. E le serenate d’amore nostalgico lacerava no i silenzi nel fuoco della luna e dei falò tra boccali di vino a scatenare melodie “a voce stesa” con il sottofondo di chitarre battenti ed organetti, E s’incantavano anche le volpi a timida fuoriuscita dalle tane e i lupi spiavano, sentinelle sui dirupi: Ed il pensiero corre alle grotte inaccessibili, covi/rifugio dei briganti a taglieggiare incauti viandanti. E la nuvolaglia, che dirada cenerina o si incupisce nerastra su alla cima., mi figura lavoro paziente di boscaioli e fatica estenuante di carbonai, fauni fuligginosi a conquista di pane stento nel tabarro di fustagno. Non so se per onorare il toponimo il Cervati fu davvero, un tempo il regno dei cervi. Ma lo fu di sicuro e lo è ancor del falco pellegrino e della poiana, del nibbio reale e dello sparviero, della coturnice e del gracchio corallino, del gatto selvatico e dell’aquila reale. Qui ti prende desiderio insopprimibile di panismo sacro ed hai voglia di confonderti e quasi annullarti nell’anima viva della natura, che respira con gli alberi, gracida con corvi e sparvieri, ulula con i lupi e canta con la litania dell’acqua murmure perenne nella polla a miracoloso zampillo alle radici dei faggi o a gorgoglio di rigagnolo dal salto di un embrice posticcio a trafittura di terrapieno lipposo. È istintivo sporgere le mani a conca e rigenerarsi a lavacro di purezza dell’acqua a svenatura del ventre della terra, L’effetto è quasi immediato; e ritorno alla vergine ingenuità di bambino a ricamare a ghirigori giallastri a manto immacolato a forzata ciarliera minzione. Fuma la neve e cede crepitando. Un piede in fallo e ruzzolo a capitombolo con Bartolo a filmarmi divertito. Da queste parti ci hanno portato alcuni fa anche l’Assessore Regionale al Turismo come madonna pellegrina a propiziare miracoli di investimenti. C’è da sperare soltanto che non ci siano progetti ambiziosi e dissennati che deturpino la incontaminata verginità della montagna a soddisfare ciurme di gite domenicali fuori porta. La Madonna vera è più su, a 1800 metri, e dall’eremitaggio di una chiesetta veglia su boschi, campagne e paesi di tutto il Cilento e non solo. Ed è contesa d’amore e fede con quei di Sanza, che scalano il monte dall’altro versante a reclamare possesso di santuario e statua miracolosa. Lassù c’è anche l’ultimo rifugio, fresco di recente apertura, Mi piacerebbe consumarvi caciocavallo e abbondanza di vino forte, frizzante e generoso, Ma i cirri cupi sulla cima minacciano tempesta in pieno aprile e sconsigliano l’ultima ardita scalata. Ci tornerò magari nella stagione giusta quando i pianori che sfiorano il cielo si tappezzano di fiori di lavanda ed il sole dardeggia nella canicola, Lo prometto a me stesso con l’assenso entusiasta di Bartolo Scandizzo che mi sarà compagno di avventura, mentre la macchina imbocca la carrareccia della discesa a margine di fossati a cantilena d’acqua e sorriso di primule. Un puledro bizzarro nitrisce spavaldo o per protesta o per la nostra intrusione nel suo regno del silenzio smemore o perché ferito di dolcezza d’amore per una cavallina che lo guarda con gli occhi acquosi di tenerezza e desiderio.
P.S.: Il pezzo è tratto dalla pubblicazione VERSO IL CERVATI: Edizione Plectica – del 2007. Si tratta di un tentativo di dare dignità letteraria ai centri del Cilento interno attraverso una collana di Letteratura di viaggio. A distanza di tempo non sono riuscito a capire se si è trattato di una delle mie tante avventure di folle utopia e se ci sono stati almeno i classici 25 lettori di manzoniana memoria che mi hanno letto. Ciò nonostante recidivo perduro ancora almeno fino a quando non si spegne del tutto l’entusiasmo.