di Monica Acito
Quella che abbiamo raccolto è una testimonianza che sa di sangue, denti digrignati e lacrime soffocate al lato del cuscino, in modo da non macchiare le lenzuola e non far scricchiolare il letto. Quella che abbiamo raccolto è una storia che sarebbe rimasta abbandonata agli schizzi di un diario segreto o relegata a prendere polvere su una mensola, perché il giornalismo racconta anche storie che altrimenti si perderebbero tra le briciole del tempo, erose dagli agenti atmosferici e dalla polvere biblica dell’universo. Questa è la storia di S., ragazzina cilentana che ha chiesto di rimanere anonima,così come anonima rimarrà la sua provenienza. Come una madre amorevole mi sono promessa di partorire su queste righe la sua storia,accudendo le sue ferite e accarezzando i suoi dolori con la penna, in modo da non farle sentire il carico immane della solitudine che paralizza e rende ciechi. La sua storia è fondamentalmente una storia di bullismo, quel bullismo dal gusto tipicamente ruspante e paesano, che sa di ignoranza, sputi e sillabe spietate come scariche di mitragliatrice. Quel bullismo consumato nei paesini di mille anime o poco più dove basta poco per ghettizzarti, isolarti e renderti una specie di zimbello, quel bullismo cattivo e marcio come solo i ragazzini a volte sanno essere. Quel bullismo che deriva dal cancro dell’invidia e dall’ ignoranza paesanotta, in cui sei emarginato se provi a costruire qualcosa, se ti piace studiare o se non ti arrendi alla mediocrità dilagante o semplicemente se non ti entusiasma perdere il tuo tempo a marcire in mezzo ad una strada come tutti, ma preferisci fare altro.
S., dall’infanzia, è vittima della piccolezza di una mentalità che è radicata negli occhi, nella pelle e nel codice genetico di una intera collettività: non sei come noi, provi a volerti emancipare dal modus vivendi comunitario? Ti piace stare da sola, sei timida e magari ti piace leggere, scrivere,studiare? Allora sei sbagliata. Ci hanno provato in tutti i modi a far sentire S. un aborto umano, uno sbaglio rivestito di carne: era arrivata a voler lacerare in mille pezzi lo specchio dove era riflessa la sua immagine, poiché il bullismo ti porta a dar ragione ai tuoi carnefici e ad azzerare te stesso. Era arrivata a voler ripudiare se stessa e il suo modo d’essere per amalgamarsi alla folla dei suoi aguzzini, forse solo così l’avrebbero accettata e avrebbero smesso di tirarle sassi addosso e a sminuire ogni suo successo scolastico e non. Una gran parte della mentalità cilentana è di un marcio aberrante: l’invidia verso chi prova a costruire qualcosa nel proprio piccolo arriva a toccare vette siderali di asprezza, l’impasto di ignoranza paesana e ragionamenti da branco la fanno da padrone su uno sfondo che non ha nulla da invidiare alle novelle di “Vita dei Campi” di Verga. La stessa crudeltà nei rapporti sociali e la stessa mancanza di tatto e sensibilità collettiva sono incarnate nelle lingue e nei pensieri di una comunità, e ciò è ancora più preoccupante se si pensa che le nuove generazioni, a parte rare eccezioni, sono colpite anch’esse da tale morbo. Bisognerebbe lavorare per cambiare questa mentalità avvelenata, ma ciò richiederebbe uno sforzo di autocoscienza troppo intenso, bisognerebbe plasmare il territorio partendo col plasmare se stessi. Affinché non ci siano più S. costrette ad odiare il proprio territorio e i propri conterranei, affinché il Cilento sia una landa più civile e a misura d’uomo e non soltanto una sbiadita cartolina da mostrare a qualche allampanato turista tedesco amante del trekking che viene qui soltanto ad agosto e poi se ne va.
Facciamolo tutti per le lacrime silenziose di S. e tante altre vittime che non riescono a parlare, tante vittime di un’ ignoranza e una mentalità che si ripete da secoli uguale a se stessa.