Dopo Wojtyla, che ha sperimentato la lotta tra Chiesa e totalitarismi, dopo Ratzinger, accademico analizzatore delle vicende della storia, Bergoglio descrive preoccupato lager e gulag, stragi ruandesi e macelli dell’ISIS, epurazioni cambogiane e genocidio armeno facendosi carico nel suo poliedrico pontificato di porre riparo ai nefasti effetti della guerra mondiale a pezzi nella presente congiuntura geopolitica. Egli considera le zone più calde del pianeta come l’Orinoco, il Don, il Tigri e l’Eufrate, il Congo e si schiera senza se e senza ma col popolo, segnato da angoscia e animato da speranza. Per invitarlo a non rassegnarsi egli annuncia il Vangelo, caritatevole buona novella nel mare amaro delle bad news del nostro tempo per superare lo iato tra Scrittura e storia e opporre le ragioni del cuore al tramonto della ragione. La sua fede nell’unico Dio misericordioso lo spinge a sollecitare l’abbraccio di secolari civiltà per porre un freno anche ai protagonismi statunitensi, propensi a praticare ancora superati e insostenibili unilateralismi per consentire, invece, agli operatori di pace di venire a capo delle ferocie di chi ha dimenticato ogni umanità precipitando in una indescrivibile barbarie.
Il Papa argentino appare preoccupato delle discordie che scuotono l’armonia del sogno unitario europeo. Vestiti i panni di leader mondiale, egli non teme di mettere a nudo le banali ovvietà di tanti populismi, le aporie d’illusi illuministi, fallimentari ricette keynesiane e gli egoismi dei monetaristi quando politici di ogni denominazione si recano in Vaticano a fargli visita. Bergoglio riconsidera il magistero europeista di Wojtyla e Ratzinger proponendo un progetto capace di rispettare l’autonomia dei singoli membri per consolidare un’effettiva comunità, disponibile a condividere le risorse a vantaggio di tutti e porre riparo al progressivo scollamento affettivo fra cittadini e istituzioni, queste ultime percepite sempre più distanti dalla concretezza della vita quotidiana e poco disposte a porre attenzione a sensibilità diverse. Intanto, mentre si va verso un mondo sempre più connesso, ponti e muri rispondono a motivi diversi di progettazione, tesi a risolvere eventuali problemi della vita. Invece, lungo la via di Gerico, metafora della storia umana, soltanto un solido viadotto, costruito rispondendo alla logica della responsabilità, della condivisione e della giustizia, può garantire al progresso umano di continuare il suo viaggio. Da più parti si predice un mondo multipolare sempre meno occidentale per allineamenti più che per alleanze, predizione minacciosa se a questa si affianca anche il calo del tasso di sensibilità democratica per le ondivaghe esperienze di una globalizzazione generatrice di crisi che ridimensionano ottimistiche previsioni di sviluppo socio-culturale e di crescita economica. Un globalismo senza regole rende attuali le riserve elaborate subito dopo le prime entusiastiche celebrazioni del fenomeno per aver sperimentato gli effetti dirompenti della deregulation sullo Stato nazionale e sul diritto internazionale.
L’impegno a disegnare un nuovo orientamento dell’azione diplomatica della Santa Sede come risposta all’evoluzione geopolitica in atto costituisce veramente “La sorpresa di Francesco”. La multipolarità diventa una necessità per l’evidente ridimensionamento di precedenti indiscutibili primati, saggia opzione per consolidare il concerto tra potenze regionali per nulla intenzionate ad accettare intrusive leadership. Tutto ciò obbliga i sostenitori del momento unipolare a ridimensionare la loro propensione eccezionalista, malgrado il revival registratosi dopo l’implosione sovietica. Del resto, si sono moltiplicati gli avvertimenti dei declinasti, preoccupati per la flessione del peso internazionale degli Stati Uniti.
Francesco si propone quindi di riformare le articolazioni ecclesiastiche pagando anche lo scotto delle congenite lentezze burocratiche. Prioritaria è diventata l’intransigente revisione della gestione economica, una necessità per coerenza con la scelta radicale della chiesa povera con i poveri, mentre si pone il problema di un adeguato apparato delle comunicazioni per rispondere alle esigenze di un settore in continua evoluzione. Questo orientamento ha avuto riscontri differenti nei vari contesti della cattolicità, cme nel caso degli Stati Uniti. Il papa fa di una pratica migratoria inclusiva la discriminante per valutare l’efficacia dei nuovi equilibri continentali. Non meraviglia, quindi, il persistente contrasto con un presidente nazionalista e prodigo di dichiarazioni antislamiche. Inoltre, un episcopato con tendenze conservatrici, legato a una concezione del magistero come custode della dottrina, non comprende l’orientamento di Bergoglio, impegnato a modificare la prassi tenendo conto dell’esperienza concreta e del contesto.
Anche in Africa la situazione presenta zone d’ombra, non solo per una distribuzione ineguale dei cattolici, ma per la crescente povertà acuita dalla bomba demografica. Le molteplici confessioni cristiane e le religioni trasformano il continente in un laboratorio con fedi e appartenenze diverse nei singoli stati, i quali hanno confini molto aleatori per mancanza di omogeneità; tracciati per corrispondere agli egoismi coloniali essi rendono difficile la coabitazione. La cattolicità romana è impegnata a adattarsi per gestire la globalità del proprio essere cristiana. La politica africana del Vaticano deve convincere gli attori internazionali che il continente è un soggetto non irrilevante, mai più mero oggetto delle pratiche e degli interessi altrui. Occorre frenare quanti monopolizzano le risorse e per questo non hanno remore a trasformare intere regioni in teatro di guerra strumentalizzando differenze etniche e religiose.
Per Francesco, i musulmani non sono un nemico da temere, ma persone con le quali intrattenere buoni rapporti. Coabitare con loro è già avvenuto in una vicenda secolare di alleanze politiche e diplomatiche. Il mondo musulmano, nel quale ha trovato rifugio l’identità araba, ha subito la colonizzazione europea che ha fatto conoscere all’animo religioso di questi popoli anche il pensiero laico nella versione francese. Ne è derivata la necessità di procedere al difficile passaggio dall’azione missionaria, con i suoi reiterati fallimenti, al dialogo sincero allo scopo di collaborare per salvaguardare valori umani minacciati da sistemi politici e ideologie che insidiano la dimensione spirituale. A rendere complessa questa opzione ha provveduto lo scontro di civiltà percepito come drammaticamente in atto dopo gli attentati terroristici dell’undici settembre. Ma, rispetto ad altri protagonisti delle relazioni internazionali condizionati dalle tesi di Huntington, la Chiesa non ha rinunciato al dialogo. Francesco ha provveduto facendo tesoro della sua esperienza argentina di amicizia con esponenti di altre religioni, in particolare ebrei e musulmani, rapporti che modellano le relazioni con l’intento di non farsi condizionare da episodi di fondamentalismo violento e optare per il dialogo con gli autentici credenti dell’Islam, evitando odiose generalizzazioni.
Anche nell’azione diplomatica il papa non persegue una conciliazione sincretistica o un approccio meramente formale, cerca il confronto dialogico per condannare, ritenendola una bestemmia, ogni violenza in nome di Dio. Per Francesco, operare a favore della pace significa tentare di porre riparo alla terza guerra mondiale a pezzi della quale l’azione terroristica nel mondo costituisce una tragica esperienza. E’ una scelta che consente di liberarsi anche dei condizionamenti di un cristianesimo di minoranza, ansioso di praticare contrapposizioni fino ad oggi rivelatesi improduttive. Francesco è propenso a non puntare su astratti ragionamenti, sollecita un’autentica riconciliazione della Chiesa, ospedale da campo per accogliere le vittime di tutti gli ismi che hanno lasciato piaghe profonde lungo la storia. Da buon samaritano, il papa non è impegnato a praticare lavate di testa, è pronto, sull’esempio di Gesù, ad operare la lavanda dei piedi non solo il giovedì santo.
Il dialogo riconciliazione richiede tempo e molta pazienza e Francesco non è alieno dal praticarlo. Lo scenario della terza guerra mondiale a pezzi gli fa ritenere che nel mondo non è più possibile individuare un centro perché se esiste nelle dinamiche della globalizzazione certamente è anche frammentato. Perciò, occorre ricercare un equilibrio capace di garantire unità e pace per affrontare e risolvere i problemi determinati dai fenomeni migratori, dalle disuguaglianze sociali, dalle insidie all’ambiente, da un conflittuale rapporto tra le religioni. A guidare scelte diplomatiche capaci di pervenire a un duraturo rapporto geopolitico occorre, come egli ha spesso ripetuto, che tutti i soggetti responsabili delle relazioni internazionali si convincano che il tempo è superiore allo spazio, che ogni anelito all’unità è superiore alle propensioni al contrasto, che ogni esperienza concreta nella vita quotidiana è superiore alle prospettive insite solo in formulazioni teoriche; di conseguenza l’insieme della famiglia umana è il tutto sempre superiore alla parte, perciò diventa impraticabile erigere muri per circoscrivere i problemi ghettizzandoli.
Il papa non esita a prendere posizione perché questi odiosi recinti vengano abbattuti; per questo è pronto a pagare il prezzo d’immeritate accuse, fuori e dentro la chiesa, di essere un populista anti-liberale, anti-capitalista e apocalittico. Egli intende traghettare la Chiesa verso una terra nuova, complessa aspettativa che sollecita opinioni diverse tra sostenitori e oppositori, delusi e critici, i quali si accontentano di rimanere nel recinto della cronaca e non nella prospettiva feconda della storia. Invece, Francesco interpreta tendenze profondamente radicate nell’umanità di oggi, ma che molti non riescono a cogliere, incapaci di dare risposte adeguate alle domande che, con crescente impellenza, uomini e donne contemporanei pongono alla Chiesa.
I critici sperano che il pontificato di Francesco costituisca soltanto una parentesi, anche se appare difficile un ritorno a opzioni precedenti rispetto al suo tentativo di organizzare l’azione della Chiesa come un poliedro per valorizzare tutte le sue componenti. Del resto, una coinvolgente tecnica di comunicazione ha eliminato per sempre stili paludati e sacrali, come in precedenza il gesto di Paolo VI di regalare la tiara ha indotto i successori a non utilizzare più il triregno e, quindi, a ridimensionare i contenuti di quel simbolo. Le periferie visitate da Francesco, alle quali egli si è costantemente rivolto, non potranno essere ridimensionate ridiscutendo la centralità nella chiesa da campo. Le dimissioni di Benedetto XVI hanno contribuito a delimitare le ascendenze europee del papato, sanzionando le conseguenze della progressiva minoranza del cattolicesimo nel Vecchio Continente rispetto a una società sempre più secolarizzata. La sorpresa del papa latino-americano ha consentito di scoprire la fecondità della cattolicità romana proprio mentre la globalizzazione ha indotto a considerare la portata delle dinamiche che si riferiscono all’orbe, ormai da considerare una città globale. Francesco ha reso tutto ciò più facile per la capacità d’intessere una simpatetica relazione con la gente, ricordando che il popolo di Dio non può essere circoscritto nel chiuso di confini condizionati da strutture ritenute immutabili perché funzionali nel mantenere una statica identità complessiva, spesso immaginaria. La fedeltà al Vangelo obbliga ad una costante inclusione. E’ la Buona Notizia: le porte del Regno di Dio rimarranno spalancate per sempre. E’ anche la strategia della diplomazia vaticana specializzata appunto nella pratica dello smart power, che ha trovato in papa Francesco l’ultimo efficace elaboratore.