Era prevista una mia partecipazione attiva alla Borsa Archeologica del Turismo per domenica 29 per dare un contributo alla presentazione del bello ed interessante libro del prof Fernando La Greca “IL MELOGRANO DELL’ANTICA PAESTUM”. L’evento è organizzato dall’Associazione Dieta Mediterranea di Paestum, di cui è presidente il vulcanico e motivato idott. Gerardo Siano. Gli acciacchi dell’età avanzata ed i mali di stagione me lo impediscono. Ne chiedo scusa agli amici, Fernando e Gerardo. Sono stati entrambi miei alunni al Liceo Classico di Agropoli . Ma, come dicevano i latini “ad impossibilia nemo tenetur”. Affido, pertanto, a questo scritto le riflessioni che, più o meno, avrei fatto a voce, nella speranza che ci sarà a breve un’altra occasione per parlarne più diffusamente. Vivissine cordialità a tutti i partecipanti e Buon Lavoro!
Niobe ebbe dodici figli, sei maschi e sei femmine, secondo alcuni, quattordici, sette e sette, secondo altri. Ne andava legittimamente orgogliosa tanto da vantarsene nei confronti della dea Latona e deriderla, perché lei con Giove era riuscita a procrearne soltanto due: Apollo e Artemide. Peccò di “ubris”, di tracotanza, là dove necessitava equilibrio, saggezza e temperanza, “sofrosune”, almeno nei confronti degli dei. Gli antichi Greci praticavano, come si sa, una “religione antropomorfa“, nel senso che le divinità assumevano non solo forme umane, ma in loro erano connaturati anche virtù e vizi tipici degli uomini, e, quindi, passioni, come la gelosia e l’invidia. E fu proprio l’invidia degli dei, la “ftonos ton teòn” a perdere Niobe. La vendetta degli dei fu tremenda: Apollo uccise i sei/sette maschi, Artemide le sei/sette femmine. Niobe per dolore fu trasformata in roccia. “Fatta pietra dai numi cova il suo strazio” canta Omero nel XXIV libro dell’Iliade. E Sofocle dà voce, nell’Antigone, alla rappresentazione del tragico: “La figlia di Tantalo/ morì di morte infelicissima sulla cima del Sipilo: un germoglio di pietra, come edera tenace, si impadronì di lei: e si strugge di lacrime e da sotto le ciglia con pianto perpetuo irrora i fianchi del monte”. E nella fantasia popolare, tramandata nei secoli, la roccia, in cui la regina di Lidia venne trasformata, esiste ancora. A pochi chilometri da Smirne, c’è la cittadina di Manisa, la vecchia Magnesia. Partendo da qui e seguendo le indicazioni si sale lungo il fiume Caibasi, verso le pendici del Sipilo. Non ci si può sbagliare. Le indicazioni portano alla “Roccia Piangente”: Niobe è qui a perpetuare dolore, che si fa fiume di lacrime, nella sorgente che sgorga dalla roccia, e che si ingrossa lungo il corso. L’unica pianta che è nata e prospera all’ombra del macigno è un melograno. La montagna sovrastante è tutta una macchia di pini, dove, d’estate, riecheggia assordante il concerto delle cicale. Fonte e melograno simboleggiano il ritorno ala vita (si materializza in acqua, fiori e frutti) dopo la tragedia della morte. Intorno si respira aria di sacralità.
Ma il melograno mi richiama alla mente un altro mito, quello di Persefone, figlia di Demetra, dea dei Misteri Eleusini. E narra di Ade che rapisce la giovane e bella dea, la fa sua e la porta nel suo regno degli Inferi. La madre Demetra, dea delle messi e della fecondità, si vendica e rende la terra infeconda fino a quando non le sarà restituita la figlia. Zeus/Giove è costretto a correre ai ripari ed invia Ermes/Merecurio da Ade imponendogli la restituzione della fanciulla. Il re degli Inferi acconsente, però fa mangiare a Persefone un dolce chicco di melograno. Così facendo Persefone segna il suo destino per sempre. Passerà due terzi di ogni anno con la madre sulla terra ed un terzo con il marito nell’Ade. Potenza del melograno, che è simbolo di fecondità, sacro ad Afrodite, pianta che fa morire, ma anche rinascere. E, così, i due miti, quello di Niobe e quello di Persefone, di Demetra e dei Misteri Eleusini, si fondono nella simbologia del melograno, che i Greci piantavano sulle tombe degli eroi, quasi ad eternarne la vita attraverso il ricordo. Il melograno di Niobe simboleggia ed esalta la fecondità terrena. Il melograno di Demetra e di Persefone riscopre ed esalta morte e vita, tenebre e luce, Inferi e Superi, inverno e primavera nel gioco perenne, che è umano e divino insieme, codificando il principio che bisogna morire per rinascere e rivivere. È questo, d’altra parte, anche il senso dei misteri Eleusini.
Atene si congiungeva, e congiunge ancora, ad Eleusi attraverso la Via Sacra. Qui oggi, contrariamente al passato storico, impazza la fiera del turismo con negozi che espongono mercanzie di ogni genere e di ogni (dubbio) gusto. Eppure, se chiudi gli occhi ti risuonano nelle orecchie le parole con cui Aristotele tentava di spiegare l’esperienza iniziatica dei e ai Misteri di Eleusi, ossia una visione che “attraversa l’anima come un lampo”.
C’è un altro luogo, a me piuttosto familiare, dove la sensazione è la stessa. Basta percorrere il corso di Capodifiume da Paestum, all’altezza della ex Cirio, alla sorgente alle pendici del Calpazio, dal cui terrazzo, a volo di infinito, si spalanca il Santuario della Madonna del Granato, che dal chiuso di una stipa veglia su uomini e campagne. Reitera nella tipologia della statua la dea Era/Demetra/Cibele e come lei promette ai devoti doni abbondanti di fecondità.
Nel dolce tramonto di ottobre, sono ebbre di luce le anatre allo scialo libero dell’acqua nell’ansa del fiume, che fu santuario alla dea dei frutti, come testimoniano le colonne mozzate che affiorano dal lago sulfureo. Il Salso gorgoglia e rifrange argento nel breve salto ad “impietrar la trabe” con il suo carico di sali raccolti nel ventre oscuro e misterioso della montagna. Mi è sottofondo allegro di memorie ad evocare e ritmare la storia che qui ha radici antiche.
Qualche centinaio di metri più su una cava di pietre arenarie abbandonata è ferita/sfregio alla natura che grida vendetta. Ne è memoria nel toponimo della contrada, Petrale. Reclamerebbe un progetto di rinaturalizzazione con un melograneto a sbalzo di terrazzamenti, punto di accoglienza con chiosco e degustazione dei derivati dei frutti e bacheche/legenda a recupero di storia e di arte nella prismaticità delle sue espressioni (letteratura, pittura ed iconografia in genere) di una pianta, il melograno, appunto, che è sacra al territorio. Sarebbe una tappa obbligata del turismo scolastico a riscoperta e valorizzazione di una pagina tanto bella quanto trascurata della nostra storia. E potremmo mettere su un progetto di teatralizzazione del mito. Niobe e Persefone e Demetra, con le prestigiose testimonianze della grande letteratura, Omero e Sofocle, Apollonio Rodio e i lirici, Ovidio e Seneca e, via via, fino a D’Annunzio e ai suoi romanzi del melograno (suggerisco l’idea all’Accademia Magma Grecia, che fa teatro innestandolo su miti, storia e tradizioni del territorio). E potremmo ipotizzare anche noi un percorso attrezzato, una via sacra fluviale lungo il corso di Capodifiume da Paestum alla sorgente, con soste obbligate a fruizione di episodi di pagine di mito e di storia. Sarebbe un modo originale, nuovo e coinvolgente di promuovere il territorio nel segno del turismo culturale. Certo il progetto va ripensato ed articolato nei particolari. E non avrei difficoltà a farlo. Ma per quanti sforzi io faccia non riesco ad immaginare un referente ricettivo e dalla sensibilità spiccata verso il bello ed il buono, il xalòs xai agatòs, dei greci, pervaso, quindi, dall’estetica e dall’etica del turismo, che a Paestum dovrebbe essere di casa. Spero tanto che il referente sensibile ed amante della cultura verrà fuori dalle prossime elezioni. Me lo auguro e lo spero fortemente. Forse il buon senso mi dovrebbe consigliare di non farmi eccessive illusioni e di tacere. Ma non ci riesco, perché, nonostante tutto, resto un malato di folle utopia. E, ancora, parlo e scrivo dei miei sogni. A FUTURA MEMORIA