Per fotografare in chiave sociologica oltre che politico/amministrativa la realtà del vasto territorio comunale di Capaccio/Paestum, ho usato spesso l’immagine delle “isole che stentano a farsi arcipelago”. Vale, naturalmente, per le tante contrade, alcune popolose altre meno, nate, quasi spontaneamente, aggregandosi intorno a mini nuclei di masserie preesistenti, dal Sele al Solofrone, in orizzontalità, e dal mare alle colline, in verticalità. Ed hanno problemi seri in termini di servizi come di attività di socializzazione. Oggi vorrei focalizzare l’analisi sulla “separatezza” che caratterizza i rapporti tra il capoluogo e la pianura. La ferita da separatezza è cosa diversa e più lacerante, culturalmente ed economicamente, della separazione.
In cima alla collina, Capaccio si adagia nel breve pianoro nel colorato arabesco di case e chiese. Oggi compatta nell’unicum della sua struttura urbanistica, fu, un tempo, articolata in casali a dominio di orti e giardini: Monticello, Santoliveto, Casecapolla, Lauro. Il primo nucleo abitato fu Monticello, all’indomani della migrazione forzata, da Capaccio Vecchio, dove il Santuario/Cattedrale della Madonna del Granato e lo scheletro del Castello sullo sperone di roccia del Calpazio testimoniano importanti pagine di storia. Il Tempone è una balconata verde ed ariosa su vallata e pianura, passeggiata lenta e sosta di riposo per quanti, a tutela di orgoglio di identità, sono rimasti nel vecchio paese, quasi ad arginare la migrazione biblica verso il mare, e guardano con disincanto, sempre, con disappunto, qualche volta, il meticciato della Piana popolata da parvenus dai portafogli gonfi di affari nell’agricoltura e nel turismo. La Parrocchiale di S. Pietro, che fu cattedrale di diocesi estesa e potente, testimonia di vescovi santi e colti. L’orologio della Torre Campanaria ha scandito gioie e dolori ed ha registrato passioni politiche nel vecchio municipio a custodia ed arredo di piazza. Il Convento mi accende nostalgia di Festa di Sant’Antonio con banda, luminarie e fuochi d’artificio e lo sbafo di torrone, nocciolate e zucchero filato alle bancarelle colorate a conclusione della devozionale “tredicina” nella bella chiesa che, bambino, mi ferì di stupore con l’ampio chiostro a giocare a girotondo sul pozzo di pietra. La strada del vecchio centro storico è nastro d’asfalto zigzagante tra bei palazzi e minuscoli giardini recintati, testimoni di nobiltà di censo e di casato: Tanza, Rubini, Granato, Bellelli. Camminando a passi lenti ne recupero la memoria storica in compagnia delle ombre, che reclamano vita: principi e baroni, vescovi e padri guardiani, nobili reazionari ed eroi rivoluzionari, professionisti ed artigiani ed i mille sudati mestieri di un popolo senza nome, senza lavoro e senza terra fino all’assalto dei latifondi e conseguente riforma agraria, che nello spazio di un decennio rivoluzionò costume, economia e vita di un territorio più di quanto non l’avessero fatto tutti i secoli precedenti messi assieme. Tutto questo enorme patrimonio di storia, di tradizioni e di memorie va messo in circolo virtuoso e promozionato sui mercati anche per un’offerta turistica diversificata e destagionalizzata. E’ in questa ottica che il vecchio capoluogo può, legittimamente, candidarsi a “QUARTIERE RESIDENZIALE DI PAESTUM”. E non solo. Ma un quartiere residenziale esige decoro urbano, efficienza di servizi, riscoperta e valorizzazione delle proprie tradizioni e del proprio vissuto storico con iniziative di spessore e di sicuro impatto mediatico nel segno della CULTURA, qui dove si respira aria di poesia della memoria e calore umano di solidarietà. Provo a suggerire qualche idea per ridisegnarne il futuro: Valorizzare il ricco e vario patrimonio ambientale, recuperando la vecchia strada pedemontana del Castagneto fino al Monte Vesole, costeggiando il Monte Soprano, ipotizzando: a) ” itinerari verdi“, ma anche “gastronomici”, facendo leva sulle numerose aziende agrituristiche e della buona ristorazione nate spontaneamente e cresciute con l’impegno costante di una emergente imprenditoria delle zone interne in termini economici e culturali, dando a Capaccio paese un ruolo di capofila di nuovi e fecondi mercati, alla scoperta di un autentico paradiso di natura; b) dare alla Casa natale di Costabile Carducci, eroe eponimo della rivoluzione cilentana del 1848, la dignità di un Museo vero, premiando in questo modo anche l’impegno di storico e di cittadino dell’amico Gaetano Puca, che ha dedicato una vita alla figura prestigiosa dell’eroe eponimo della seconda rivoluzione cilentana. Ma per ridurre o eliminare il gap della separatezza tra Piana e Capoluogo c’è anche la necessità di dare un ruolo al vasto territorio che dal mare trasmigra alle colline lungo la strada di Pazzano, da un lato, e quella dei tornanti ariosi di Capaccio Vecchio, dall’altro, dove sarebbe consigliabile localizzare il MUSEO DEL GRAND TOUR, di cui si sta perdendo la memoria dopo un periodo di attività intensa fino a qualche anno fa: l’ultima notizia di vita e di futuro sfuma in una ipotesi di sistemazione in una delle torri della cinta muraria dell’Antica Paestum, per la determinazione dell’amica direttrice, Daniela Di Bartolomeo. Forse, così, sarebbe venuta meno la sua (del Museo intendo dire) funzione di rianimazione culturale delle zone collinari, ma sempre meglio che niente. Il tema del ruolo del capoluogo sarebbe da inserire a caratteri cubitali nell’agenda dei tanti, forse troppi, candidati/sindaci e non alle elezioni amministrative ormai in direttiva di arrivo. Ma sono convinto che i cittadini di Capaccio hanno intelligenza e sensibilità per capire, e quindi scegliere, chi tra i candidati ama veramente storia, memoria e tradizioni del vecchio capoluogo per intimo profondo radicamento e necessaria, equilibrata ed improrogabile giustizia distributiva delle potenzialità e delle opportunità di sviluppo armonico dell’intero territorio comunale e chi, invece, recita la parte per esigenze elettorali, anzi elettoralistiche. Se avrò tempo, come spero, ritornerò su questo tema, che mi intriga e mi appassiona molto anche per tutto quello che Capaccio ha significato per quelli della mia generazione, nati e cresciuti negli anni della spensierata giovinezza a pochissimi chilometri di distanza sulle ariose colline interne della kora pestana.