di Giuseppe Liuccio Ho intenzione di trattare a più riprese “La sacralità degli alberi e dei frutti”, focalizzando l’attenzione su alcuni alberi, che fanno parte da tempo del paesaggio rurale del Cilento. Credo di rendere, così, un servizio di cultura al territorio che mi ha dato i natali, ma anche di offrire uno strumento di conoscenza utile agli amministratori locali a tutti i livelli, a cominciare dai sindaci e dalla nuova “governance” del Parco. Almeno spero. La “Festa del Succoth o delle Capanne”, che si celebra tra settembre e ottobre, quando l’estate trasmigra nell’autunno, è una della più sentite ed importanti del calendario ebraico. L’origine si perde nella notte dei tempi e ricorda i 40 anni trascorsi nel deserto, dopo la fuga dall’Egitto alla ricerca/conquista della Terra Promessa. Ha, quindi, una grande valenza identitaria, perché gli Ebrei ricordano ed esaltano l’origine della propria storia. Ma ha anche una valenza agricola, di cui diventa protagonista la Calabria in quel lungo e bellissimo tratto di costa tirrenica, conosciuto come “riviera dei cedri” e che si estende da Tortora a Paola. Si spingono fin qui i rabbini d’Italia e non solo alla ricerca del cedro perfetto, un rituale, questo, rispettato e sacralizzato, che, come prescrive il Pentateuco, sono tenuti a portare in processione in sinagoga quattro vegetali: mirto, salice, palma e cedro. Ma il cedro deve essere un esemplare scevro da impurità. Ed è una ricerca scrupolosa quella che fanno i rabbini per trovare il cedro perfetto. I migliori si trovano in Calabria, dove l’albero fu importato dagli Ebrei, nella quale essi vissero per secoli fino all’arrivo degli Spagnoli che dopo il 1492 provvidero a cacciare dal territorio, sul quale governavano, tutti i discendenti di Mosè. Ma l’albero continuò ad essere coltivato dai calabresi ed ingioiella ancora il panorama rurale della costa e dei paesi che trasmigrano verso l’interno fino alle propaggini del Pollino. Ed è in questo territorio che si aggirano di questo periodo i rabbini per adempiere con scrupolo religioso alla scelta dei “cedri più belli dell’albero più bello” con l’aiuto di agricoltori esperti. Una volta raggiunto l’obiettivo, simbolo di perfezione e di splendore, prende la strada/e delle diverse comunità ebraiche in Italia e in Europa per animare da protagonista le ritualità delle varie feste del Succoth. Ed è, il cedro, l’altro agrume calabrese che prende le strade dell’estero, insieme al bergamotto coltivato, quest’ultimo, sulla costa ionica di Reggio e la cui essenza alita profumi nelle industrie di bellezza di Parigi. Questa lunga e straorinaria storia, che esalta il passato nell’attualità del presente, del cedro mi riporta alla mia terra di origine, dove in un territorio vasto ma ben individuabile si respira aria di sacralità, con il protagonismo di un’altra pianta tipica della mediterraneità. Il territorio è Capaccio e la pianta è il melograno. A Capaccio Paestum, là dove alle radici della collina del Calpazio emerge dal ventre della terra una sorgente carica di sali e zolfo con straordinarie qualità terapeutiche, c’è Capodifiume, dove la sorgente si fa lago. Qui tronchi di alberi si solidificano per la salinità e lo zolfo, qualità queste che vennero cantate dai letterati antichi che parlarono di acqua “che impetra”, alludendo, soprattutto ad uno speciale tipo di canna, “la trabe”, che ha dato il nome ad un santuario dell’enogastronomia del territorio, “Le trabe”, appunto. Dalle acque del “lago” della sorgente del fiume breve di percorse ma carico di storia e sacralità, emergono le colonne mozzate di un tempio, che fu di Proserpina/Persefone, dea di luce ed ombra, di notte e giorno, di inverno e primavera, di morte e resurrezione. Oggi vi scivolano indisturbate le anatre allo scialo di sole nella bella stagione e inabissate a cercar riparo nella brutta. Più su, lungo i tornanti che scalano la collina, ad una svolta sulla destra, riaffiora da un giovane querceto un santuario a dominio di pianura e mare: “Il Getsemani”, dove lascia senza fiato per l’emozione un Cristo in preghiera di dolore alla vigilia della crocifissione scolpito da in loco da un macigno qui trasportato dai monti di Trentinara. Ed aria di sacralità si respira anche nell’anfiteatro all’aperto all’ombra dei lecceti dove si irrobustiscono nella preghiera e nelle dotte discussioni degli esercizi spirituali uomini e donne alla ricerca/conquista di Dio nella propria anima. Poco più su di un chilometro ancora, sulla sinistra una edicola indica un Santuario, che si conquista con un breve tratto di strada dirupante, ma comoda, sulle fiancate in cui trionfa l’arabesco di natura di ginestre, mortelle lentischi, agavi che sguainano spade e finocchietto selvatico che elettrizza le narici, a seconda della stagione, ma sempre e comunque ricchi e densi di aromi mediterranei. Il sagrato del Santuario è un terrazzo di luce spalancato sulla pianura e sul mare dei miti e della Grande Storia di Poseidonia/Paestum. La basilica/santuario in volo verso orizzonti lontani, di Agropoli ed il Cilento, da un lato, ed il lunato Golfo di Salerno con Costa di Amalfi e Capri sullo sfondo, dall’altro, è dedicato alla Madonna del Granato. E qui irrompe, da protagonista, l’albero del melograno, che è sacro al territorio. È simbolo della fecondità che squilla nel rosso sangue dei fiorii a giugno nella primavera avanzata e si spacca e sorride accattivante con i chicchi bianco/ rossiccio dei frutti a ottobre. Il rosso è dominante e quasi indica l’evoluzione dell’amore nel rosso scintillante dell’innamoramento e della passione che esalta nei fiori e nel rosso bianchiccio dei frutti ad indicare la femminilità della procreazione attraverso il colore del mestruo della donna, che è già pronta all’avventura esaltante e sacra della trasmissione della vita. E qui nel raggio di pochi chilometri si narra visivamente l’evoluzione della fertilità della terra attraverso il culto di Hera Argiva e di sua figlia Proserpina/Persefone/Pomona, che erano state già la Magna Mater delle popolazioni italiche e degli Etruschi e l’Iside degli Egiziani e che sarà La Madonna del Granato (in questo caso) nel processo di cristianizzazione medioevale della ritualità pagana. E (senza scomodare le testimonianze letterarie sul tema – ricordate I romanzi del Melograno di D’Annunzio?) gli alberi e i frutti ne saranno protagonisti: Ulivo ed olio che furono di Minerva, vite e vino che furono di Bacco/Dioniso, grano e cereali che furono di Demetra/ Cibele diventano ritualità per madonne e santi. Lo è naturalmente il melograno/granato, che affida al culto della Madonna la ritualità/preghiera della fecondità/abbondanza per la terra e per la donna. E il discorso potrebbe continuare per tantissimi altri alberi. Sarebbe una bella ricerca che dovrebbero fare le scuole su stimolo, progettazione e finanziamento del Parco, delle Fondazioni, degli assessorati alla cultura, al turismo, e all’agricoltura dei comuni interessati, Capaccio Paestum soprattutto, ma non solo. Ma il Parco si configura sempre più come un guscio vuoto, un’ombra alla merce di politici in vetrina di vanità nell’apparenza o in rissa per poltrone nella sostanza, ma territorio esposto quotidianamente al pericolo di coltivazioni, animali ed uomini da parte dei cinghiali voraci. Le Fondazioni sono a caccia di finanziamenti per progetti fumosi alla mercé di governance autoreferenziali, gli assessorati, mare apparentemente piatto in cui galleggiano, alla deriva, personaggi privi di cultura e senza idee, salvo poche lodevoli eccezioni. Tutti gli occhi sono puntati sulla nuova Governance del Parco sempre che la Politica che conta la smetta di considerare il Cilento come terra di conquista da depredare senza scrupoli e/o pudore nullificandone, di fatto qualche timido tentativo, di ripresa e sul nuovo giovane direttore dell’Area Archeologica di Paestum prima che venga omologato all’andazzo che qui vige da secoli o, peggio ancora, si barrichi ancora di più nella solitudine infeconda dell’autosufficienza. La speranza, comunque è l’ultima è morire. E intanto, solo per sottolineare, una apparente, ma solo apparente, banalità, nel territorio assistiamo al trionfo spudorato delle palme, estranee alla nostra cultura arborea ed alla quasi scomparsa del Melograno, che è simbolo della sacralità della nostra terra. La collina del Calpazio, per non parlare della zona di Capodifiume, dovrebbe, invece, esserne piena, quasi per voto. Che tristezza di fronte alla incultura che dilaga e si ostenta! Ma apre il cuore alla speranza la lodevole iniziativa del dottor Gerardo Siano, che ha messo su una associazione dal promettente titolo “Il Melograno di Paestum” per valorizzarne la qualità e diffonderne la coltivazione, alla luce anche del successo del recente convegno “Il Melograno nel mito, nella storia, nella alimentazione” tenutosi a Paestum alla recente “Borsa Archeologica del Turismo”. Per quanto mi riguarda seguirò con attenzione ed interesse l’evoluzione ed il lavoro dell’Associazione senza far mancare l’apporto del mio contributo. E prometto pubblicamente che allargherò le mie riflessioni di ricerca sulla sacralità degli altri alberi del territorio, preannunziando già da adesso che nel mio prossimo articolo mi occuperò dell’ULIVO. Sarà un modo concreto per manifestare l’amore profondo per la mia terra e per la sua grande e bella storia. [email protected]
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