La religiosità, in un piccolo borgo, è una contraddizione in termini: è una questione intimamente viscerale, privata e personale, eppure dal respiro comunitario e collettivo. Si inizia a respirare l’odore dell’incenso fin da piccoli, quando le mani rugose delle nonne ci accompagnano nelle piccole cappelle o chiesette dei vicoli del paese, e qualcosa di più grande di noi, sfuggente e misterioso, ci travolge riempiendo l’età infantile di domande senza alcuna risposta razionale. La religiosità e la spiritualità, in un piccolo borgo della Valle del Calore, ha lo stesso sapore che aveva per Pier Paolo Pasolini la scoperta dei testi evangelici, da cui si lasciò suggestionare per realizzare il suo film “Il Vangelo secondo Matteo”: un sapore puro, ancestrale e che affonda le radici nei racconti di santi e miracoli delle donne. Una religiosità agreste e quasi pagana, collettiva e rituale, investe le nostre anime fin dalla più tenera età. C’è chi trova nell’abbraccio della chiesa la sua dimensione ideale,sposando il culto del cattolicesimo e i precetti dogmatici che ne conseguono, c’è chi invece vive lo strato più emozionate della religiosità popolare, quello incontaminato e selvaggio che fa tremare il ventre. Di solito, dopo l’età infantile, la prima giovinezza porta con sé un ventaglio di dubbi, domande irrisolvibili e messe in discussione delle storie tramandate dalle nonne e dai genitori, e solo chi riesce a costruire negli anni una fede autentica e supportata da credenze solide, va avanti con la religione; ma questa categoria annovera tra le sue file ben poche persone, perché per la maggior parte vi è una fede aprioristica, portata avanti quasi per inerzia e senza il minimo guizzo di criticità e senza aver sposato davvero l’afflato autentico di ciò in cui si crede, spesso anche in modo abbastanza ipocrita (predicando bene e razzolando male). Spesso non si sa come e in cosa si crede, ma lo si fa seguendo la scia del “pare brutto”, una delle più potenti “motivazioni” dei nostri Borghi: fare qualcosa perché sennò pare brutto. Vi è poi la congrega degli atei, coloro che non credono in nulla, seguiti da coloro che invece decidono di sospendere il giudizio perché impossibilitati a dare una risposta circa l’esistenza o meno di Dio (i cosiddetti agnostici). Tra le varie fazioni, esiste
Però la magia dei riti religiosi cilentani, delle processioni che trasfigurano la ritualità in un evento quasi pagano e che emoziona anche le scorze dei cuori più impenetrabili alla religione e più restii alla fede, le processioni e le festività che sanno delle mani delle nonne e dei racconti materni e infantili, in cui la devozione smette di essere indirizzata a qualche divinità e si riversa sul popolo e su quel mondo puro e veracemente infantile. Se è impossibile dare una risposta certa a quesiti dottrinali e spinosi, rimane un’unica certezza: che la religione, nei piccoli borghi, smette di essere una questione dogmatica e si inserisce nella cultura civile ed emotiva di un popolo, che forma coesione e comunità. La religione diventa non oppio dei popoli, ma cemento e collante per unire tanti volti diversi in una ritualità incessante che ha l’eco delle tradizioni secolari e pagane, e poco importa che le proprie basi religiose siano più o meno traballanti, certe emozioni non hanno fazione e suscitano una commozione pura.
Una commozione che ha a che fare con la poetica del paesaggio e del proprio paese, e forse è quella la religiosità più profonda, quella che trascende le mura di una piccola chiesa di provincia e si incarna nei ricordi più intimi di un essere umano.