Per la festa di Cristo Re siamo stati invitati ad esaltare la relazione d’amore di una Persona che eleva la sua voce per ricordare a tutti che è ancora possibile costruire storie di pace e di solidarietà, trasformare la famiglia umana in testimone fedele dell’esodo di liberazione verso la pienezza del Regno del Padre. È la missione della chiesa, indispensabile testimonianza del difficile equilibrio dell’essere istituzione calata nelle vicissitudini del tempo ma impegnata a svolgere la funzione profetica, essere sale e luminoso kairos per l’umanità.
L’invito di papa Francesco a partecipare al sinodo costituisce una provvidenziale opportunità per procedere al necessario discernimento, recuperare la funzione di guida e radicare la speranza. Da qui la riflessione su di un argomento apparentemente teorico ma, a ben riflettere, centrale: la scelta dei vescovi ed il loro processo di inculturazione. Ciò risulta evidente se si considera che sono chiamati ad essere gli animatori dell’assise, per nulla allarmati nel difendere sacre infule e nuvole di incenso.
Come è noto, con inculturazione si intende il processo di trasmissione e di adattamento ponendo attenzione allo specifico contesto culturale nel quale si è chiamati ad operare. L’individuo prescelto deve fare i conti con le proprie doti personali, disciplinate da un processo di formazione sperimentato negli anni di educazione e riassunto nell’azione del super ego per consentire ad un ego motivato di decidere dopo attento discernimento. Emerge, quindi, un problema: l’influsso del contesto di origine, da quello familiare a quello locale e parrocchiale, nel quale si è vissuti, elementi che hanno plasmato e condizionano nell’esaminare situazioni e vicende con le quali s’impatta nella pratica della leadership. Se cominciano a spaventare le difficoltà e farsi condizionare da innata timidezza, se il percorso di formazione culturale è risultato affrettato ed approssimativo, se si stenta a comprendere le dinamiche del contesto, se come termine di paragone si richiama sempre l’ambiente di origine per trarre ispirazione, allora si determinano fratture alle quali è difficile porre rimedio. Rimane una vicenda di vertice della quale la diocesi non è partecipe, anzi sovente vittima. Intanto si determinano gravi sbandamenti in un presbiterio dal quale si pretende obbedienza, nei fatti per nulla virtuosa. Particolarmente deleterio risulta il ridimensionamento della sua funzione se, alieno da piaggerie, è disposto a dare consigli ritenendo proprio dovere aiutare un presule disposto al rapido processo di inculturazione. I preti che operano con queste finalità non intendono emergere o provocare, ma invitano a ponderare e superare la facile scorciatoia di ascoltare soltanto coloro che dicono ciò che piace sentire, bypassare collaboratori istituzionali e prestare attenzione a venticelli adulatori.
A disfunzioni di questo tipo possono apportare rimedio le qualità personali dell’ordinario se abile nell’inculturarsi, amabile nel relazionarsi, padre e non ispettore del sacro, impegno complesso che presuppone la volontà di sollecitare collaborazione e l’umiltà di accettarla sia dai componenti il presbiterio diocesano, sia da un laicato disposto a collaborare. Il sinodo diventa quindi una provvidenziale opportunità anche per il vescovo se accompagna alla metanoia la conversione nello stile di vita e pratica una fiduciosa frequentazione del presbiterio e del popolo di Dio.
Da qui la il simbolico questionario in relazione all’emergere di alcuni emblemi che presentano le modalità con le quali sono concepite le funzioni episcopali. Noti mitria e pastorale; quest’ultimo è simbolo del potere ecclesiastico, una lunga asta con l’estremità ricurva. Nella solennità dell’investitura simboleggia uno scettro, ma ha origini molto umili: bastone del pastore che richiama il buon governo, la volontà di condurre i fedeli alla salvezza. Oggetto dotato di una estremità appuntita per spronare pigri ed impenitenti ed una ricurva per attirare pentiti e smarriti. Ad esso si accompagna la mitra simbolo di dignità, autorità e santità; invece l’anello simboleggia la fedeltà del vescovo alla propria diocesi.
Non rimane che moltiplicare le occasioni per dare concretezza a questi simboli, senza paure o subdoli muri preventivi. L’autorità dovrebbe identificarsi con la dinamica del servizio esaltato, oltre e non tanto dall’anello, dalla mitria e dal pastorale, ma anche dalla brocca, dal catino e dall’asciugatoio utilizzati da Gesù nell’ultima cena, convinti che vero problema da affrontare col sinodo non è il vuoto di potere, ma l’assenza di servizio.
È vero, con la sola intelligenza umana, colma di cinico scetticismo e prona al potere risulta difficile riconoscere in Gesù questo modello di regalità, soprattutto per la paradossale situazione di crocefisso: nudo, flagellato come uno schiavo colpevole, torturato e soggetto al dileggio di uomini violenti che inscenano la tragica parodia di un re ridotto a oggetto di sadico trastullo. Ma il suo regale silenzio fa trasparire l’amorevole libertà di chi si sente nel giusto e obbliga l’altro a porre la domanda sulla sua identità. Egli non accetta un mondo regolato dal potere della forza, ne rivendica uno diverso: quello dell’amore, dove il re si fa servo per rendere tutti più felici, pronti a gustare il miele della vera vita. Così rende testimonianza alla verità, che non è un sistema filosofico, un metodo d’indagine, un catalogo di formule, ma l’uomo nel quale si specchia l’Amore. Gesù si mostra Re perché emerge e domina su ciò che lo circonda. L’Ecce homo – indifeso, inerme, povero, innocente – rivendica la propria regalità mostrando i limiti e le paure di un potere oppressivo, re di un regno che deve venire per liberare, proclamare la giustizia e donare la pace. Gesù sfida la presunzione dei potenti, l’orgoglio della falsa sapienza e pratica l’umiltà del servizio fino alla croce. Noi la riteniamo una sconfitta, invece Dio accetta il dono, la bontà, il sacrificio di sé, premesse di quel Regno, che non ha come legge il dominio, ma il servizio, perché costruito non sulla prevaricazione, ma sulla misericordia.