Avevo sei anni o giù di lì, quando, dalle montagne di Trentinara, scesi per la prima volta a Paestum. Fu stupore da delirio di emozioni lo spettacolo dei templi maestosi con l’ambra delle colonne doriche nella gloria del sole in una lontana luminosa primavera nella immensità della pianura allora deserta, o quasi.
“So li sieggi re Piesto”, mi disse nella coinvolgente rasposa sonorità del dialetto, la mamma che avevo accompagnato alla Festa dell’Annunziata nella Basilica Paleocristiana tra ressa di fedeli litanianti. Mi accese intelligenza e cuore di fanciullo di curiositas, che avrei soddisfatto in anni di ricerche e studi rigorosi alla scoperta dei miei Padri Greci. E così la pianura si popolò di dee pagane e Madonne crisiane, che fuoriuscirono dai libri e si materializzarono, pronube di fecondità per donne e campagne, contesa trasmigrazione devozionale alle colonne mozzate o sui santuari sull’infinito dell’orizzonte di terra e mare.
E su per le colline della kora. Mi ferì di dolcezza il sorriso intrigante delle Nausiche in amore, la malinconia delle Penelope in prolungata attesa, degli Eumeo e dei Melanzio patori. E Giove tuonò fra i nembi delle forre, Mercurio alitò nella brezza a scompiglio degli ulivi, Vulcano risuonò negli attrezzi degli artigiani, Apollo si illuminò di sorriso nel volto di grazia dei giovani intraprendenti.
Poi il volo dalla cova calda del paese e, Ulisse pellegrino, girovagai, inquieto, per il mondo, ma con negli occhi e nel cuore la nostalgia per la mia terra. E Paestum fu la mia Itaca, porto sospirato per i rari momenti di quiete, prima di riprendere la navigazione in mare aperto per terre e mari sconosciuti. E scandì la lacerazione delle partenze, la ricomposizione degli approdi e, soprattutto, la sospensione atemporale ed aspaziale delle presenze/assenze. E mi investì l’uragano delle emozioni/ricordi nella corposità delle parole. E i ricordi tornano e premono alle corte del cuore. Io li ascolto e registro, per atto d’amore. Per testimoniare e non morire!