Da tempo si assiste ad una costante demolizione delle barriere comunicative, ad una contaminazione di stili che finisce in una disastrosa corsa all’indietro rispetto ad una scala ideale di ruoli. Indubbiamente la crisi dei partiti sul finire del Novecento ha comportato l’atomizzazione delle istanze, delle rivendicazioni democratiche che un tempo trovavano proprio nella politica il luogo del confronto dialettico, capace di dare risposte alle legittime richieste che provenivano dal basso.
La perdita di questa mediazione tra le istituzioni e la popolazione, ha finito con il favorire le rivendicazioni corporative a difesa dei propri interessi: i tassisti, gli agricoltori, i balneari, giusto per restare ad argomenti di recente discussione, sono la rappresentazione fedele di un processo di spappolamento della nostra società, incapace di selezionare interlocutori credibili, in grado di trovare una sintesi e di tenere insieme le tessere del mosaico democratico.
Se poi è la stessa politica a ricorrere alla protesta per sostenere certe rivendicazioni, utilizzando slogan ed improperi, risulta difficile pensare che gli elettori possano reputare che il voto, la delega democratica, il confronto civile siano ancora dei valori in cui credere, declinando invece nelle urla e nei pugni battuti sul tavolo quali mezzi per avere ragione.
Probabilmente siamo ai titoli di coda: dopo aver visto imprenditori vestirsi da politici, comici trasformarsi in capipopolo, ci mancavano i politici che cavalcano la piazza, sbertucciando i tutori dell’ordine, apostrofando ministri e sottosegretari.
Il risultato è una sorta di maionese impazzita, dove tempo fa erano stati proprio i sindaci ad essere definiti dal governatore “questuanti e pellegrini”.
Gli stessi che, a fronte di tematiche serie, oggi vengono utilizzati come delle silenziose comparse sul set della strada, divenuta luogo di processione mediatica, smarrendo così quel senso di appartenenza alla stessa categoria, quella degli eletti dal popolo che, in ogni democrazia rappresentativa, hanno il dovere di parlarsi civilmente, sforzandosi di trovare soluzioni possibili e concrete.
E’ tempo di tornare nei ranghi, di allontanarsi dalle telecamere, di smettere di scimmiottare gli imitatori, di ritrovare quel senso dello Stato ed il rigore che il proprio ruolo impone.
È necessario, se davvero si vuole riacquistare quella autorevolezza smarrita da troppo tempo, che finisca questa lunga ed estenuante ricreazione fatta di troppi monologhi e di inutili turpiloqui.
Lasciando le piazze ai cittadini ed utilizzando le sedi istituzionali per i propri compiti, magari chiedendo di essere ricevuti attraverso i protocolli tradizionali e non con le prove di forza e le bussate al portone.