Il borgo medievale di San Severino di Centola è l’emblema fantastico che ricorda il paradigma del tempo: esso ci offre la chiara visione del delicato equilibrio tra uomo e natura, dove le forme dell’uno e dell’altra, soggette al ritmo della trasformazione, si decostruiscono, si rompono e si riconfigurano, invitandoci a riflettere sullo stato della nostra frammentaria e precaria esistenza. Il nostro paese abbonda di piccoli tesori nascosti, incastonati nella natura, come orologi preziosi che riecheggiano con il paesaggio verdeggiante della “Bella Italia”. Un’opera d’arte a cielo aperto, dove frammenti di memoria, si offrono ai nostri occhi come il risultato di un imperituro tempo da domare, con la mirabile tensione, verso l’ignota immagine della sopravvivenza all’oblio della fragile caducità umana. Un luogo in cui la bellezza, portata alle estreme conseguenze, mostra le forme della sua nuda verità.
Scesi alla piccola stazione deserta di Centola, ci si incammina per la strada che conduce sull’alto sperone roccioso alla scoperta dell’antico borgo abbandonato. La testa e gli occhi rivolti verso l’alto alla ricerca di quelle improbabili immagini, rinvenute sul web, che affastellano la mia mente dal giorno precedente. La salita verso l’alto lascia presagire lo stato di immobilità in cui giace l’alto paesaggio che accoglie le rovine dell’antica città. Lo stato di abbandono non interessa solo il borgo medievale su in cima, ma anche la parte della città di San Severino più moderna che si colloca ai suoi piedi, sopravvissuta con circa 350 abitanti. Ha un aspetto desolato: alcune case, la segnaletica sbiadita, i rifiuti sul ciglio della strada, qualche hotel dismesso in attesa della ripresa estiva. Il solo elemento che riconduce a percepire una sorta di movimento nell’immobile paesaggio è il rumore di sottofondo del fluvio carsico del Mingardo che scava la Gola del Diavolo, e quello dell’accelerato passaggio del treno.
San Severino è una frazione del comune di Centola, chiamata fino al 1861 San Severino di Camerota. Il suo borgo fantasma sorge sull’altopiano di uno sperone roccioso.
Risale al VII sec. dicono gli storici. Forse. Quel che è certo è che dal 1977, nessuna anima vive lì. La causa dell’abbandono è da attribuirsi allo spopolamento. È il problema dei tanti comuni del Cilento appartenenti alle aree interne.
Questo incredibile sito, con una bellezza quasi sinistra, si presta regolarmente a visite organizzate. Un viaggio nell’antica terra cilentana. Bisogna fare attenzione, le rovine del borgo di San Severino rimangono pericolose e il sito non è monitorato. Le cadute di roccia continuano a verificarsi. L’accesso al sito è libero e gratuito. Oltre alla strana atmosfera, la visita del borgo offre splendide viste sulla campagna circostante e sul moderno stralcio includente la linea ferroviaria che guarda al futuro. Ci assale il sentimento nostalgico, ma più di tutti è la sensazione di un mancato riconoscimento di quello che ci sta intorno. Suonano vuote le parole come “patrimonio”, “ambiente”, “storia” se non vi è raccordo di pensiero tra gli uomini disposti ad immaginare nuovamente le comunità. Con l’auspicio che questi luoghi non diventino solo l’eco di un turismo vuoto, la ricerca di un ristoro fresco all’ombra del quale mangiare un panino. “Quel che resta” è il titolo di un’importante opera letteraria di uno dei più autorevoli antropologi italiani, Vito Teti, il quale ha portato le proprie riflessioni sull’abbandono dei paesi.
“Il viaggio della speranza non va compiuto più fuori, ma nel posto in cui sei”.
Finita la società contadina, i paesi delle aree interne si spopolano. Le macerie dei paesi abbandonati risultano disfunzionali, vengono allora adibiti temporanei villaggi turistici che permettono alle ditte appaltatrici di racimolare qualche soldo, l’unica molla economica che poi puntualmente finisce per deludere tutti. Cosa fare allora di questo patrimonio dismesso, dove a sottolineare la sua esistenza sono solo le guide turistiche, le agenzie di viaggio e le prestigiose insegne Unesco e Parco Nazioanale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni? Sterili circuiti vacanti che segnano l’itinerario senza guardare al contenuto. La scusa che lascia posto alla fotografia veloce, al selfie di gruppo, alla condivisione sui social, che occupano uno spazio ancora più effimero. Non più luoghi ma non-luoghi, rapidi ed esclusivi accessibili attraverso un clic.
La difficoltà nei collegamenti, corpi-paesi che giacciono alle intemperie della coscienza umana che si vedono ripopolati nella breve stagione estiva solo per una quindicina di giorni.
Una delle sorelle del monastero di Scigliano scrive in una lettera a Teti: «Restare fa paura. Perché guardando i paesi disabitati, ci riscopriamo frammentati dentro». Ma, proprio per questo, «è da lì che tutto può incominciare».
Le culture di paese sono crollate, lo spopolamento attanaglia le aree interne: cosa succede a questi numerosi paesi, dove finisce il fasto della vita che un tempo abitava e si insinuava tra i passi lenti dei suoi abitanti? Quel che resta è probabilmente l’affanno dell’uomo che non sa dove andare.
Teti parla di riscatto: «Non mi riferisco a una storia di ruderi e di rovine da inserire in itinerari turistici o in parchi archeologici o letterari o da trasformare in case albergo. Non si invoca la restaurazione di un mondo perduto (…), si vuole affermare, oltre che il diritto alla memoria, un diverso modello di sviluppo».