L’ambiente, descritto da una geografia antropizzata, é il palcoscenico dove si susseguono le vicende di lungo e di medio periodo vissute dal Cilento e che aiutano ad analizzare dinamiche culturali e strutture collettive del profondo, con una particolare attenzione all’esperienza religiosa, indispensabile premessa per considerare le stratificazioni sociali di un contesto segnato dalla lentezza o dalla staticità dei processi storici. Ad aspetti strutturali si affiancano altri fattori, frutto della mentalità e delle scelte della popolazione, scettica nei confronti di una sentita partecipazione democratica per la consolidata delusione nel constatare l’incapacità di scalfire il monopolio di mediatori politici, abili nel rimanere a galla in ogni regime. L’esperienza collettiva, segnata da tanti dolorosi traumi, ha indotto a rifugiarsi in dinamiche sociali imperniate sulla famiglia, unità produttiva e depositaria di affetti e di valori elaboratori della cultura sapienziale, la quale tramanda un rapporto immanentistico con la natura ed esalta il mos mediterraneo.
Così il popolo possiede, custodisce, partecipa valori culturali riconosciuti e accettati, patrimonio di una civiltà scrigno d’incontri, amalgama di stratificate esperienze, convivenza d’itinerari e fantasma di una memoria nel conferire vita alle dinamiche dello spirito raccontate da aedi dotati d’ispirazione, vena poetica e introspezione nel leggere le esperienze quotidiane. Nel loro peregrinare interiore si fanno guidare da un pathos carico di sentimenti e danno vita a tanti fantasmi che, pur nella specificità delle vicende narrate, evocano la patria, custode del focolare, l’amore nelle sue molteplici sfaccettature, i giovani che scalpitano per impossessarsi del futuro, saggi anziani, custodi delle radici.
Tra i tanti nel Cilento si è segnalato Pietro Carbone, la cui opera letteraria è un antidoto alla stanchezza determinata da effimeri stili di vita, al fatuo prevalere di culture esterofile, alle caduche ideologie di sistemi politici che annaspano. Egli propone un pellegrinaggio della memoria alla ricerca del Paradiso Perduto; invita ad intraprendere il viaggio alla ricerca di una meta interiore, l’itinerarium verso la terra promessa, necessaria metanoia per gustare i veri valori abbandonandosi all’azione catartica della cultura, un riattualizzare il passato sperimentando sensazioni in grado di suscitare nostalgia per un’autentica esperienza comunitaria.
Pietro Carbone ha dedicato particolare attenzione al dialetto, inteso non solo come semplice variante dell’italiano, ma adeguato mezzo comunicativo per esprimere sentimenti, parole ed espressioni colorite, che conservano il sapore di un passato le cui radici sono rimaste indelebili. Il modo di salutarsi, le frasi usate e il chiamarsi a gran voce dalla finestra o passando davanti alle case dei vicini, le feste. E’ il caso, ad esempio, della fiera della frecàgnola legata al passato agricolo-pastorale, evento molto sentito, ricordo odori, sapori e colori, che inondano le strade, come un fiume in piena, anarchia animata dalla goliardia della gente che si riversa nei violetti e in piazza per bere, cantare, ballare e suonare antichi strumenti. La sopravvivenza di questi costumi non deve far dimenticare la vita degli avi era diversa, immersa nel vortice delle fatiche dei campi coltivati o delle esigenze degli animali portati al pascolo, fonte primaria di sostentamento e, al contempo, di coesione sociale, d’incontri e pranzi.
Con l’aiuto di un Virgilio come Pietro Carbone si riscoprono le radici, si comprendono e si preservano con l’orgoglio dell’appartenenza a un paese-comunità consapevole del passato, protagonista nel presente, bene augurante nel progettare il futuro. Egli ha travasato il ricordo dei secoli passati nel terzo millennio dell’era cristiana. I suoi racconti evocano vicende ricche di fascino per chi non li ha vissuti in prima persona. Le sue storielle, i proverbi o le filastrocche non sono mera custodia di un pensiero che sta evaporando, ma sublimazione estetica e testimonianza di vita materiale, sostanziosa esperienza culturale ed educativa, memoriale di civiltà. Infatti, l’attenzione ai beni culturali del paese diventa segno, monumento e simbolo dell’ineffabile e rassicurante certezza dell’Essere nel panta rei del quotidiano, esaltante esperienza per chi è capace di una percezione quasi mistica dei valori spirituali racchiusi, come prigioni, nel paesaggio descritto dal poeta e narratore.
Questa prospettiva arricchisce Cannalonga di rinnovato fulgore. Il paese acquista pregnanza di significati in un panorama che dai vertici della Sergnia spazia fino alla piana di Calsavelino, intravede Velia, ammira il monte Stella e, a sinistra, con la sua stazza incombente il monte sacro. Caratteristiche ambientali ed emblemi di civiltà accreditano il mito e, per leggerlo ancora più a fondo, non rimane che dare inizio al viaggio interiore alla ricerca della verità. La mitopoiesi del sogno suscitata dai versi diventa corroborante presenza del bello evocato dalla luna, dalla montagna, dalle valli, dalle stelle e dalle luci del paese. Un faro in lontananza consente di mantenere sempre la rotta trasformando in malia anche l’inverno, tramonto dorato dell’esistenza perché per la sua dolcezza non ha sapore d’inferno. Sono le sensazioni che sgorgano da poesie come Vierno roce:
Che lluna a chisto rende re ‘a mundagna!
Na vaddi chiena ‘e luci re i paisi!
Cche cielo senza nuvole, sireno!
Lundano, ‘u faro ca se vota e bbota!
‘Ngoppa sto pizzo,
cche armonia re stelle!
E’ tutta na malia, ca porta ‘u viendo
A sto recembre
Ca no ssape ‘e vierno
L’esaltante dimensione del mito trova spazio e consistenza discreta ma illuminante nel popolo che anima questo territorio. L’Io, divenuto Noi, si ricarica, pronto per affrontare nuove sfide. Cannalonga, paese-rifugio, sperimenta, salvaguarda, ripropone la sua esperienza di vita all’oggi della post-modernità. Ciò è possibile ricorrendo ad una diversa percezione del tempo, non mera cronologia, ma scansione lentissima, quasi impercettibile, per illuminare situazioni che appaiono anacronistiche solo a chi ha fretta. Questi strumenti di lettura aiutano a percepire la profondità di espressione e di valori di un contesto antropologico diverso e non cadere nel falso pregiudizio frutto di una deludente incapacità di comprensione.
Con questi sentimenti, in giorni segnati dall’emergere di ricordi, sapori e sentimenti natalizi, ci si scambia gli auguri immaginando di sentire i rintocchi di una specialissima Aggroliata:
Ngoppa sto tra pizzo, / mo sendo aggroliare.
Ste tre cambane a festa / So’ ggioia ‘ngielo e a mmari.
Na strappata ‘i pinzieri, / na sfrunnata ‘e canzoni,
na spolecata bbona / quanno te piglia ‘a fame,
na ‘mbrofumata ‘e iuri / inda ‘a campagna a mmaggio,
porta sta aggroliata.
Cche “nnio nio ‘mbo” ca sona!
E si raggi re sole / Spendano ‘ngoppa ‘e nnote
Tra i tuzzi re ‘e mmundagne, / e, penzica, cchiu a l’ario.
Bbinirica, cche festa, / bbinirica, cche ggrolia,
bbinirica, cche mmoto / ca face riri ‘a vita!
Accussì cchiu devoto / a tte, Dio mio, mme voto,
e ddico: – Gloria aterna! –
Che ddoce aggroliata! /‘A voglio sende!
Risentire quei rintocchi obbliga ad andare oltre la dura selvatichezza, i sentimenti elementari, le incontrollabili passioni che si attribuiscono ad un paese arroccato nel proprio isolamento.
Al contrario, superando ogni demonizzazione, con estetica arcadica e grande capacità rievocativa si percepisce il funzionale disegno delineato nel territorio dai suoi abitanti e si supera la distaccata freddezza di una condanna razionale che appartiene a contesti incapaci di sentire l’armonia della gloria a Dio per gustare la pace riservata agli uomini di buona volontà.
LR