Tricarico è un paese dell’interno della Lucania, una terra del Sud, dove gli aratori “hanno le facce bruciate come le bucce di pane”, ed il silenzio dell’acqua infossata fa tuonare la gravina… e là, nell’ombra delle nubi sperduto, / giace in frantumi un paesetto lucano
Vi nacque, nel 1923, Rocco Scotellaro, “poeta postumo”, ragazzo dai capelli rossi, dal “viso imberbe di bambino”, divenuto a 23 anni primo sindaco di Tricarico, per volontà dei contadini.
Ed è di questi giorni il volume “Rocco Scotellaro – tutte le opere” (Oscar Mondadori) presentato alla “Fondazione Menna” di Salerno da Giuseppe Cacciatore, Accademico dei Lincei, Alberto Granese dell’Università di Salerno, Matteo Palumbo dell’Università di Napoli e da Sebastiano Martelli, dell’Università di Salerno e curatore del volume insieme a Giulia Dell’Aquila e Franco Vitielli. Un volume – è stato sottolineato – che riequilibra tutta la vicenda umana e letteraria di Scotellaro, dando il giusto spazio ad ogni aspetto dell’uomo, del letterato, del politico: negli anni passati il valore politico dell’uomo, importante senza dubbi, aveva lasciato un po’ in disparte il grande valore poetico e letterario di Scotellaro, incarnazione – ha ricordato Giuseppe Cacciatore – di un modello esemplare di intellettuale organico secondo le idee e i sogni di Antonio Gramsci.
Erano anni difficili quelli in cui ha operato Rocco Scotellaro, anni durante i quali la società cominciava ad attuare quella profonda trasformazione socio-economica che transitava l’Italia del secondo dopoguerra dal mondo contadino a quello industriale; una trasformazione ineluttabile, ma un dolore per l’uomo che in tanti casi veniva anche estirpato dalle sue radici. Si ricorderanno le “tradotte” di contadini verso i poli industriali del Nord, “un mondo già tutto fatto, incomprensibile, chiuso nella sua estranea molteplicità”.
Rocco Scotellaro osservò quel mondo in trasformazione e si trovò sempre dalla parte dei suoi contadini, traducendo – ha sottolineato Alberto Granese – in linguaggio poetico i mutamenti di quegli anni, cambiamenti – ha ricordato Sebastiano Martelli – che venivano dagli anni precedenti. Emblematiche sono le poesie “Uno si distrae al bivio”, il bivio del Mezzogiorno al passaggio storico: dove andare, dove collocarsi?; e “Si è fatto giorno”: dove «siamo entrati in giuoco anche noi / con i panni e le scarpe e le facce che avevamo. / Le lepri si sono ritirate e i galli cantano / ritorna la faccia di mia madre al focolare».
Un mondo rimasto fino ad allora estraneo, veniva da Scotellaro trasferito nei suoi versi, e non solo il mondo contadino, dei cafoni, dei “fabbricatori”, ma anche degli asini, delle capre e dei muli. E vi irrompevano le grandi problematiche sociali, come gli scioperi, l’occupazione delle terre e gli assalti al municipio. La poesia tendeva a farsi comizio e perciò, come dice Rafael Alberti, Scotellaro “visse la politica da poeta e della poesia fece, nel senso più nobile, uno strumento politico, cioè di riscatto e libertà”.
Per una intera generazione universitaria a cavallo degli anni 50-60 del novecento, Scotellaro, insieme e Carlo Levi e Danilo Dolci, è stato il mito, il “parsifal” delle lotte di evoluzione sociale – ha ricordato Claudio Tringrali, Presidente della “Fondazione Menna” nel suo saluto di apertura – da guardare e studiare per apprendere la grande lezione di storia sociale. Era per Italo Calvino un «intellettuale di tipo nuovo, impegnato sul fronte più avanzato della lotta sociale e sul piano più qualificato della cultura letteraria nazionale». Non a caso Levi scrisse a Pietro Nenni che i libri di Scotellaro erano comprati e letti dai contadini e dai braccianti: in quelle pagine, quel piccolo mondo antico che sapeva di terra, di fatica, di sudore, di schiene curve a misurare la pioggia caduta, scopriva la sua identità, la sua “partecipazione”, per quanto i grandi sistemi lo permettessero, alla trasformazione di una nazione che aveva (o le avevano?) tracciato la sua strada futura. Scotellaro, politico e poeta, traduceva in poesia tutto il travaglio dei suoi contadini, del suo mondo nel riadattarsi in qualcosa diversa, per certi versi incomprensibile. Una poesia che Umberto Saba non esitò a definire “onesta”.
Fattosi “uva puttanella”, cioè umile cantore della sua terra e umile chicco desideroso di offrire la sua esperienza al mondo, Rocco Scotellaro ebbe una vita breve, morì il 15 dicembre 1953 ad appena trent’anni, «per troppa intensità umana. Il cammino percorso da Rocco Scotellaro in cosi pochi anni, da un muto mondo nascente a una piena espressione universale, era quello di secoli e secoli di cultura: troppo rapido per il suo piccolo, fragile cuore contadino», scriveva Carlo Levi in prefazione ad una opera postuma di Scotellaro. E aggiungeva: «La poesia di Rocco Scotellaro, che oggi soltanto, lui morto, qui appare nella sua commovente e originale bellezza, è legata alla sua vita, che essa racconta ed esprime; e non tanto alle vicende e agli avvenimenti, quanto alla qualità, alla condizione, allo sviluppo singolare ed esemplare di quella, che nei versi ha trovato, con la rara misura del genio, la sua forma più diretta».