Era il mese di maggio del 1953 quando a Positano giunse John Steinbeck, scrittore americano considerato uno dei principali esponenti della cosiddetta “Generazione perduta” a cui nel 1962 fu assegnato il Premio Nobel per la Letteratura. Vi giunse su suggerimento e, per certi versi, quasi pressione psicolgica, di alcuni amici tra i quali Alberto Moravia e John McKnight. E fu subito un amore a prima vista, tanto da indurlo a scrivere “Positano” un articolo per Harper’s Bazaar che rimarrà nella memoria collettiva non solo di un paese, ma di quanti praticano i sentieri della letteratura. In quell’articolo, tra l’altro, racconta del lavoro del tombolo che le ragazze di Positano svolgono sedute sui brevi gradini avanti alle case su alla Chiesa Nuova. Scrive il Nobel per la letteratura: «Alto sul monte, un convento si affaccia sul mare; qui le monache iniziano le bambine all’ultima arte delicata del merletto. Le bambine sono pagate e col ricavato dei merletti si aiuta la scuola. Le dita agili delle bimbe che lavorano con centinaia di rocchetti fanno venire le vertigini, ma esse alzano la testa tranquille, e ridono e chiacchierano come se non avessero la minima consapevolezza delle loro magiche dita. Alcuni lavori sono di incredibile bellezza. Ho visto una tovaglia – una tela di ragno intricata come un pensiero. Cinquanta ragazze vi avevano lavorato per un anno».
Una sorta di tradizione orale vuole che quest’artigianato giunse a Positano agli inizi del ‘900, grazie a suor Marta delle Suore della Carità o Vincenziane che alloggiavano nel Convento alla Chiesa Nuova. Le monache in pratica insegnavano alle donne e alle ragazze positanesi l’arte dell’intreccio per realizzare centrini, paramenti sacri e fantasie da applicazione.
Il ticchettio dei fuselli che a decine, e a volte anche centinaia, si accavallano ad intreccio di fili sottili, bianchi o avorio, sono musica di fantasia, la stessa che rimandavano gli squadratori di riggiole a Vietri sul Mare quando tutto era manuale, dall’impasto di creta alla squadratura dei cm. 19×19. Scriveva Saveria Fiore: «A piccoli passi di danza i fuselli saltano l’uno sull’altro, si abbracciano, poi si strozzano in nodi, si incamminano verso una metamorfosi e, senza saperlo, improvvisamente diventano disegno partorito dall’elegante ispirazione di una donna». Donna che custodisce la preziosa e immaginifica arte del tombolo, di quel cuscino cilindrico sul quale si applica un cartone a disegno puntinato, a dominio di spilli e innumerevoli fuselli. Ed è l’armonia delle mani, la maestria dell’invenzione, la fantasia dell’artigianato: è una silenziosa melodia, un’arte di pazienza antica che ancora oggi cerca di resistere alle istanze di un tempo sempre più frettoloso. Prima che divenisse una città turistica mondiale, Positano aveva calcolato il tempo sull’andare del sole e della luna; l’unico orologio era quello dal campanile della chiesa madre ed era sistematicamente fermo… prima che arrivasse un signore svizzero chiamato “l’uomo dell’orologio”. Sino ad allora a Positano non si aveva il senso dell’orario, ma si possedeva il dono del tempo.
Le cronache della storia rimandano l’esistenza del tombolo in questa parte dell’Italia al periodo aragonese. Anzi sotto i Borbone questa pratica era motivo di vanto artistico, come la carta a mano d’Amalfi, le sete di San Leucio e i coralli di Torre del Greco. Una pratica che riesce ad arrivare intatta sino ai giorni nostri nonostante la prepotenza dell’industrializzazione; riesce a sopravvivere grazie all’ereditarietà di madre in figlia, per quell’antico concetto della dote per la futura sposa, senza contare che era anche fonte di guadagni per sé e per la famiglia.
Già nota per la produzione di seta e di juta sin dalla fine del 1800, Positano accolse di buon grado la lavorazione del tombolo, che vide il suo massimo splendore intorno alla metà del secolo appena trascorso, un lavoro che, anche se con qualche difficoltà, continuò anche dopo che le Suore della Carità lasciarono il vecchio convento e il paese.
Oggi a portare avanti questa antica arte è Maria Cinque, che ha cominciato a intrecciare i fuselli sin dall’età di sette anni. All’interno di un circolo sociale, Maria ha aperto una sorta di scuola per l’insegnamento del lavoro a tombolo, che ha incontrato l’interesse di non poche allieve, soprattutto giovani, una “scuola” interrotta con l’arrivo della pandemia. “Oggi – dice Maria – siamo ancora fermi con la scuola, anche se io continuo a lavorare, come anche alcune mie allieve”.
Maria Cinque aveva iniziato quest’arte silenziosa con le signorine Talamo, la più anziana delle quali aveva 90 anni quando ancora lavorava il tombolo con passione e amorevole pazienza. Non avrebbe mai immaginato di diventare così brava da poter insegnare ad altre donne. Dice: «La soddisfazione più grande è riuscire a tirar fuori dalle mie allieve lo stesso amore per quest’arte che guida ancora me quando lavoro».
E qui sarebbe opportuno riflettere quanto sarebbe utile e di vanto una ripresa, in qualche modo, di quest’arte antica che ha tutto intero il sapore della bottega delle mani. E non sarebbe malvagia l’dea, con relative iniziative, di cercare la strada della tutela facendo inserire l’arte del tombolo nella lista dei beni facenti parte del patrimonio immateriale dell’umanità.
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