La mia generazione, ha avuto l’opportunità di raccogliere buona parte dei frutti del progresso tecnologico; l’era delle scoperte e dei miracoli scientifici più importanti, illustrati, in termini accademici, per via di una materia in continua riformulazione, la multimedialità. Si pensi ai passi da gigante dei decenni precedenti, della corsa allo spazio in campo aereo spaziale che, fornirono al mondo e ai suoi abitanti, la possibilità di usufruire “metaforicamente” di uno specchio, con il quale realizzare per la prima volta, la colorata visuale della propria presenza nell’immensa infinità del cosmo. Ad oggi, conosciamo bene, grazie alle immagini offerte dai più avanzati sistemi della fotografia, la caratteristica globale e iconografica del nostro pianeta Terra. Non c’è cosa più scontata quando nell’immaginario comune, si ritiene facile riconoscere, l’affermativa predominanza del suo blu intenso con le sue acque oceaniche, la mescolanza vitale del bianco delle perturbazioni, il giallo arido dei deserti e delle verdi distese “amazzoniche” a fare da polmone. Tra le più celebri immagini, non la prima in assoluta e degna di nota, è obbligatorio citare la “Blue Marble” scattata dall’equipaggio dell’Apollo 17, che ritraeva la terra completamente illuminata dal sole. Ma come i più attenti sanno e ricordano, il passaggio in tali direzioni – perché molteplici – sono il frutto dell’assiduo impegno di esperti e competenti studiosi che allora, anche con il rischio dell’azzardo, ebbero la fortuna di usufruire delle super incentivazioni con le quali misero alla prova, i più grandi risultati ottenuti dalla competitività e dalla concorrenza della geopolitica del tempo. Mi riferisco al periodo della guerra fredda tra URSS e gli USA, dove a fare sfoggio, al di là di tutte le dipartite ideologiche, fu anche e soprattutto la conoscenza. Per questo motivo, in questa sede, ritengo di escludere, qualsiasi tipo di considerazione personale di natura tecnica, essendo un semplice appassionato, limito a riportare una mia piccola reazione, con quel minimo che sono riuscito a captare o studiare esclusivamente da emotivo profano e sognante fruitore. Qualche anno fa, nel 2019, in corrispondenza dell’anniversario dei 50 anni dell’allunaggio dell’Apollo 11, ripescai nel mio vecchio archivio musicale, un album strumentale del compositore Brian Eno – Apollo (1983). Un capolavoro sonoro come già in precedenza l’artista inglese ci aveva abituato, utilizzato per la colonna sonora del documentario della NASA, diretto da Al Reinert – “For All Mankind” – sulle missioni Apollo. In una sera di luglio, melanconica e piena di silenzi, con il riascolto di quel disco, in una fase ormai lontana dalle giustificate apprensioni attuali, mi ritrovai piacevolmente smarrito a riflettere su quella impresa, esprimendo connessioni emotive sicuramente di semplice entità, ma dal risvolto grandioso e a tratti, per via del suo carattere unico e futuristico, immobilizzante. “Cosa deve essere stato!” Ripetevo in me, quel 20 luglio del 1969… da qui, il ricordo precipitoso alla mia infanzia, il rimando allo stupore, alla curiosità e all’immaginazione di un bambino che si affacciava ansimante a toccare il mistero più grande dell’esistenza. Accadeva tutto nelle sere estive sul finire degli anni ’80, quando si giaceva a casa dei nonni per riprendersi dall’afa giornaliera, e in quelle occasioni, si finiva serenamente ad oziare su un balcone sotto il timido bagliore intermittente delle lucciole sulle quali, non riuscivo a stancare i miei occhi. Contemporaneamente, mentre gli zii chiacchieravano di altro nel sottofondo di una giornata volta a finire, si lanciavano immancabilmente gli sguardi al cielo per osservar le stelle, intermittenti anche loro nella percezione terrestre nel prospetto di una similitudine con lo spettacolo delle lucciole. E poi la luna! Fortunatamente mia madre, che sapeva bene come fare, fu brava a fornirmi gli input necessari per far tesoro di quella atmosfera, tuttalpiù confermata dalla conservazione di quel ricordo, durante tutti gli anni della mia crescita ed è stupefacente, ritornare su quei teneri momenti di incosciente estasi. D’altronde parlare ad un bambino di astronauti, razzi, navicelle, di uomini volanti intenti a raccogliere liquidi e oggetti fluttuanti, non si poteva fare altrimenti. Ritornando al 2019 e quindi catarticamente anche al 20 luglio del ’69 e a mia madre, iniziai a pensare che lei, a quel tempo, aveva appena compiuto 10 anni, una fortuna! Un’impresa del genere, sorseggiata dagli occhi e lo spirito di una bimba illuminata per così tanta eccezionalità, sulla quale mi veniva facile, per quanto ho descritto testé, riflettere il suo passato sul mio. Nel segno di questa intima frazione emotiva, sono riuscito ad immagazzinare molto altro ancora, sfruttando le sane vibrazioni dell’esperienza, nell’elaborazione di musica. Sfumature e sonorità indicative a quel frangente, hanno sempre trovato ospitalità nei miei momenti creativi di particolare intensità espressiva. Pertanto tutta l’irrequietezza ossessiva dell’uomo, si fonda sul guardare altrove e nel contempo ricongiungersi con le aree sconosciute del primordiale e del suo destino, ma senza ombra di dubbio, siamo unicamente e indistintamente, parte di un concetto molto più grande e anch’esso misterioso, la vita. Siamo singole entità, intente a recepire nella propria esclusività, l’impulso percettivo dell’esperienza ed è per questo che, chi illustra la strada come in questo caso con il racconto, ha un ruolo importante. Chi trasferisce un vissuto, inevitabilmente lo fa con la propria influenza. Il cerchio di quello che ho raccolto per questo articolo, si chiude con un paradosso. Come accennavo, abbiamo avuto modo di poter godere della multimedialità, affiancata alla lettura di libri ed enciclopedie, di avere avuto a disposizione supporti con i quali fruire di documentari e da qualche decennio la rete, ma tutto quello che riferivo poc’anzi sui progressi tecnologici degli anni ’60 sull’astronautica e sull’allunaggio del ‘69, da me furono appresi in tenera età, grazie al racconto di mia madre che a sua volta ebbe la fortuna di ascoltare la diretta televisiva, nel medesimo luogo di giochi. Si, la diretta televisiva di Tito Stagno scomparso qualche giorno fa. Il racconto di un grande cronista che mi piace omaggiare, collocandolo nel suo ruolo più consono di narratore genuino per altrettanti bambini dell’epoca a cui trasferì senza ombra di dubbio, passione, immaginazione e motivazione. Stimoli! Ascoltando una sua ultima intervista, in merito alla lunghissima diretta di quell’evento, ho estratto una piccola e semplice frase, con la quale Stagno, descrive il sentimento propositivo degli anni ’60 nel mirare oltre le proprie possibilità, di intraprendere strade nuove, sicuramente di fermento, sotto tutti i suoi aspetti dimensionali e di crescita evolutiva: «Eravamo ammalati di sogni, di speranza…».
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