In questi anni di profonda evoluzione della società civile e di ricerca di stabilità da parte di un io sballottato dagli effetti di epocali mutamenti socio-economici e cultural-comportamentali il panorama del ceto dirigente non appare molto confortante: astuzia, arroganza, pretesa impunità, senso di superiorità costituiscono il riscontro concreto dell’azione di chi a parole descrive allettanti programmi di palingenesi. Nella società dell’immagine, prona al vangelo liquido del relativismo, la professione dei guru sembra registrare sempre più successo. L’abitudine alla delega per affidare a costoro l’onere di pensare contribuisce a costruire un mondo nel quale la ricerca del potere è ambito strumento per affermarsi e far prevalere interessi egoistici.
Domenica scorsa la liturgia della Parola ha proposto una vincente alternativa a tanti presunti leader: il Pastore bello e buono della similitudine evangelica, la cui funzione di redenzione può essere compresa se si imita il re Davide. Questi nel salmo 23 decanta i pascoli del Signore mentre riflette sulle proprie debolezze e, senza scoraggiarsi, si rivolge a Dio fidando sulla sua compassione, atto di fede che esalta la predisposizione del Signore a dare il proprio cuore ai miseri, come si desume dalla composizione del termine misericordia. Il Pastore provvido non fa mancare nulla perché consente ogni giorno all’uomo di trasformare il limite e la cattiveria dei propri atti in occasione di conversione. In tal modo si manifesta la gloria della Risurrezione e la potenza del perdono divino tramite Gesù, ragione e senso della nostra vita.
A proclamarlo è stata la prima lettura della scorsa domenica. Vi si affermava che, se riconosciamo Cristo come Signore e ravviamo la nostra coscienza di battezzati, è possibile immergersi nel caldo abbraccio trinitario per sperimentare un rapporto vitale che irrobustisce la nostra fede nella coinvolgente presenza del Risorto, nostro compagno di viaggio. Tutto ciò, ha ricordato Pietro nella seconda lettura, deve indurre a precise scelte nel riconoscere Gesù, ucciso e glorificato, pastore delle nostre anime perché servo obbediente, capro espiatorio e agnello pasquale.
Questa triplice funzione contraddistingue il pastore bello e buono. Ora nella storia dell’umanità possiamo rinvenire leader obbedienti, a volte anche capi disposti ad offrirsi al posto del popolo, ma certamente nessuno può rivendicare le caratteristiche e la funzione dell’agnello pasquale, al contrario di quanto ha asserito il vangelo proponendo la similitudine del buon pastore, che è anche la porta che consente l’accesso in uno spazio vitale, la guida che accompagna nel tragitto della vita conferendole senso. In tal modo egli diviene una presenza determinante in contrapposizione ai tanti ladri di speranza pronti a profittare del popolo.
Per comprendere la ricchezza della parabola occorre riflettere sulle situazioni evocate e su termini il cui pregnante significato era facilmente colto dai contemporanei di Gesù a Gerusalemme. La porta delle pecore era l’ingresso al Tempio per i fedeli che si preparavano al sacrificio; nel descriverla emerge l’intenzione del Maestro di proporsi come il nuovo Tempio. Inoltre l’evangelista usa i termini “entrare e uscire” per indicare, come nel libro dell’Esodo, la dipartita dalla terra di schiavitù e l’approdo nella patria della libertà; un modo per fare riferimento alla funzione di Mosè come figura di Cristo. Le stesse immagini della porta e della strada col pastore innanzi che guida e varca per primo l’ingresso richiamano la vicenda pasquale e il passaggio aperto dal Risorto attraverso il deserto della morte.
Questo pastore non mortifica la personalità dei seguaci; il rapporto con lui stimola la consapevolezza di chi ascolta e riconosce una voce che chiama per indicare la strada da percorrere. Cristo-porta certamente non si propone la propria esaltazione; vuole garantire libertà di scelta in chi, alla ricerca della verità, lo ascolta; intende orientare al Padre e così comunicare la vera vita. Il suo Vangelo è la risposta a questa fame di senso; perciò il buon pastore entra nel recinto e chiama per nome per condurre fuori, in un luogo che dà sicurezza senza togliere libertà. Non si tratta, quindi, di sostituire a istituzioni vecchie e oppressive altre, ma di avviare un processo di liberazione; ecco perché la porta è sempre spalancata. Chi l’attraversa trova la terra dove scorrono il latte della giustizia e il miele della vera libertà dopo un viaggio reso rassicurante dal pastore che cammina sempre davanti: guida esperta e provvida egli apre nuovi sentieri, precede per essere convincente.
Oggi il mondo è pieno di presunti profeti che presentano la propria ideologia come una religione da imporre per far prevalere una visione dell’uomo e del mondo poco liberante. Ma nessun leader animato da buone intenzioni opera per rafforzare un potere proprio, tutti devono correlarsi alla Verità. Chi non agisce in questo modo si rivela un pessimo pastore; distrugge la libertà dei propri seguaci, come i farisei ai tempi di Gesù. Costoro non entravano dalla porta, ma da altri ingressi perché intenzionati a impadronirsi del popolo e governare solo per il loro tornaconto e non per far trionfare il bene comune. Perciò, solo “chi entra dalla porta, è pastore”; Gesù rivendica con insistenza questo ruolo. Le pecore ascoltano la sua voce; la riconoscono come efficace risposta ai loro bisogni, al desiderio di pienezza di vita. Egli, chiamando per nome, vuole intessere un salvifico rapporto personale con ogni individuo; messaggio ristoratore in una congerie globalizzante negatrice d’identità, individualità, libertà.