di Giuseppe Liuccio
Appena pochi decenni fa la donna cilentana, come, d’altronde, quella del Vallo del Diano e nel Sud in generale, era relegata soltanto al ruolo di sposa fedele e madre premurosa. Consumava la sua esistenza tra faccende domestiche e lavori nei campi, per lo più. Ombra silenziosa del marito, ne subiva i modi bruschi nel rimbrotto e nell’amore. Degli affari pubblici manco a parlarne. Era roba da uomini. La politica la viveva con partecipazione passionale solo nelle brevi quanto infuocate campagne elettorali per le comunali, esasperando, a volte, con l’ardore di una menade infuriata, il sostegno/idolatria al proprio candidato e la condanna/odio all’avversario. Le cronache dei nostri paesi sono piene di episodi di risse elettorali tra fazioni contrapposte in cui le donne la facevano da protagoniste. La scolarizzazione di massa ha rivoluzionato i costumi. E le donne, anche qui da noi, hanno fatto le loro esperienze di lavoro negli uffici e nelle fabbriche, nel terziario e nei servizi; hanno preso coscienza dei loro diritti e dei propri doveri ed hanno maturato la consapevolezza della necessità di un impegno politico e civile nelle istituzioni a tutti i livelli. E le campagne elettorali degli ultini30 anni hanno visto donne responsabili e mature, preparate e motivate, animare dibattiti, sollevare problemi, analizzare ed aggregare consensi su proposte credibili e concrete. E’ stata una rivoluzione, il più delle volte silenziosa, ma qualche volta anche gridata a voce alta, con la quale le donne hanno conquistato i loro spazi di autonomia, di partecipazione e di decisione: Hanno introdotto,così, nei dibattiti pubblici tematiche nuove ed originali, sconvolgendo il pianeta maschile assolutamente impreparato e colto di sorpresa di fronte a questa “intrusione”, in qualche caso accettata con sincero entusiasmo, più spesso sopportata con cavalleresca diplomazia, qualche volta con il maldestro tentativo di neutralizzarla con stupido ed anacronistico paternalismo o, peggio ancora, con goffa galanteria. Qualche donna è caduta nella trappola, ma la maggior parte ne è uscita indenne e resa più determinata dall’esperienza. E nelle aule consiliari, alcune da sindaco, tante da assessori, tantissime da consiglieri di maggioranza o di minoranza hanno portato la concretezza dei problemi, la volitività e la determinazione delle decisioni. E la più vasta comunità civile si è arricchita di un contributo in cui i problemi della famiglia in generale, ma più specificamente della donna: asili nido e scuole materne, scuolabus e mense scolastiche, igiene e consultori hanno avuto l’attenzione dovuta, E non è mancata l’attenzione per la cultura: biblioteche ed animazione teatrale, cineforum e concerti, mostre e spazi musicali, beni culturali e recupero dell’artigianato hanno acquistato, con la voce delle donne, una concretezza nuova, perché esse, le donne amministratrici, hanno avuto il grande merito di aver liberato, quanto possibile, la politica dalla genericità dei dibattiti e dal vaniloquio delle diatribe inutili. Abituate a far quadrare i bilanci in famiglia hanno portato nella pubblica amministrazione una sana dimensione del bilancio, appunto, ed una rara oculatezza nella spesa, finalizzandola ad obiettivi concreti e credibili.
Queste riflessioni mi pulsavano dentro durante e a fine lettura di un interessante libro dell’amico Geppino D’Amico, bello e coinvolgente già nel titolo: STORIE DI DONNE SENZA STORIA (Edizioni Laveglia & Carlone). È stata stampata piuttosto di recente la 2^ edizione. Si tratta di una gradevolissima lettura perché l’autore cavalca, con abile maestria e straordinaria padronanza, secoli di storia del Vallo del Diano, sua terra di nascita, a cui ha dedicato da sempre ricerca d’amore. E mette a disposizione del suo territorio il rigore dello storico e lo stile brillante del giornalista di razza. E i capitoli si snodano, quasi come un romanzo che contagia e prende cuore anima e pensieri del lettore, avvinto dalle curiosità della ricca tradizione, in cui nelle famiglie contadine la nascita di una donna era vissuta come una sorta di disgrazia o quasi. Lo testimoniano proverbi ancora in uso: “la mala nuttata e la figlia femmena” o, peggio ancora, qualcuno che relegava la donna addirittura ad una razza inferiore: “Femmene, ciucci e crape teneno una capo”. Altre ricorrono all’ironia e stigmatizzano con simpatia il carattere poco affidabile della donna e ne mettono in dubbio la fedeltà in amore, tipo “No la crere la ronna quanno chiange/Tanno prepara lo gnostro pe te tenge”, oppure: “la femmena è com’a na castagna/bella fore e ghinta cu ‘a magagna”. Estremamente interessanti i capitoli dedicati alla superstizione, in cui si materializzano le figure di streghe, ruffiane maare, come, d’altronde, quelli delle pratiche religiose, caratterizzate da rigorismo e pratiche di pietà inumane, a volte, o quelli della prepotenza del baronaggio, con i “signori” che praticavano lo “ius primae noctis”, per deflorare le spose come un atto preteso e dovuto. Ma il meglio del saggio è nel racconto di alcuni atti di autentico eroismo, in cui alcune donne si ribellano alle imposizioni della famiglia e fanno con coraggio la loro scelta di vita nel segno dell’autodeterminazione e della libertà. È il caso di Enrichetta Di Lorenzo, che si invaghì di Carlo Pisacane, lo amò di amore profondo e finì per seguirlo anche nelle sue imprese eroiche. Lasciò marito e figli ed entrò in drammatico conflitto con la madre Nicoletta. Parlavano due linguaggi diversi, come dimostra una lettera in cui Enrichetta si rivolge alla madre con un linguaggio rispettoso (?) nella forma ma duro, durissimo nella sostanza. È una lettera di una forza dirompente, attualissima anche a circa due secoli di distanza. Enrichetta andrebbe presa come esempio e punto di riferimento per le donne che combattono ancora per la propria totale emancipazione. Ma quello di Enrichetta non è il solo episodio che onora coraggio e forza delle donne del Vallo dianese citate da D’Amico. È di appena un decennio fa, il 5 luglio del 2016, il tragico episodio sul lavoro di Giovanna Curcio, quindicenne di Casalbuono, e di Annamaria Mercadante, quarantanovenne di Padula, morte di asfissia nell’incendio di una fabbrica di materassi di Montesano sulla Marcellana. Una riflessione a parte merita la conquista dell’elettorato attivo e passivo da parte delle donne. Fu riconosciuto da un Decreto Legislativo Luogotenenziale, il n° 23 del 1° febbraio 1945, su proposta degli onorevoli Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti. E le donne si recarono per la prima volta alle urne per una consultazione politica il 2 giugno del 1946 quando gli Italiani furono chiamati a scegliere sul referendum Monarchia-Repubblica. Ricorre quest’anno il 70° anniversario della duplice conquista democratica, la Repubblica e la pienezza dell’esercizio del diritto/dovere del voto alle donne. Sono questi gli ultimi giorni di laboriose e, spesso, svernanti trattative per la formazione delle liste per le elezioni amministrative del prossimo 5 giugno in molti dei comuni anche del Sud della provincia di Salerno, Cilento e Vallo del Diano. Mi piacerebbe che il dibattito elettorale fosse, sì, concentrato sulle tematiche dello sviluppo economico delle comunità che rinnovano sindaci e consigli comunali, come è giusto che sia, ma che fosse anche allargato alle tante conquiste civili di questo ultimo settantennio della nostra storia repubblicana, in cui il protagonismo delle donne è stato attivo, vivace e determinante. Le ultime pagine del pregevole saggio di Geppino D’Amico sono una miniera di spunti per temi da dibattere per capire “Come eravamo” e come siamo cresciuti, non tanto e non solo sotto il profilo economico, ma anche e, forse, soprattutto come maturazione culturale e civile. Lo pretendano e lo facciano i candidati delle nuove generazioni, soprattutto le ragazze, che aspirano ad esercitare legittimamente il ruolo di classe dirigente nel breve e medio termine. Lo facciano confrontandosi, però, in un rapporto dialettico con le generazioni che hanno vissuto il magma incandescente dell’ultimo cinquantennio nella consapevolezza che una società non ha futuro senza innestarsi alle radici del passato e che è fondamentale capire da dove veniamo per decidere dove vogliamo andare. Utilizzino il bel libro dell’amico/collega D’Amico per documentarsi oltre che per animare dibattiti; e, all’occorrenza, estendano l’invito a quanti, me compreso, hanno vissuto da osservatori attenti e, spesso, coprotagonisti impegnati, le battaglie tanto avvincenti quanto generose per la maturazione civile e democratica dei nostri territori.