La celebrazione dei beati e la commemorazione dei defunti sono una occasione per ravvivare la speranza in una possibile, concreta promozione dell’umanità. Il cuore sente e la mente riflette sul significato della santità presente nel nostro quotidiano grazie alla folla di fedeli che vivere il vangelo, “capaci di compieresanti della porta accanto”, capaci di miracoli di onesta e vincere un pietoso buonismo perché impegnati a far funzionare meglio il mondo praticando la normalità del bene. E’ una santità offerta a tutti coloro che riescono a scoprire la bellezza della fragilità cristiana. Di recente sono stati pubblicati dei saggi che hanno fatto l’elogio della fragilità, ne hanno descritto il fascino riportando esperienze collegate all’ermeneutica dell’uomo. Utilizza eventuali debolezze per divenire più forti è una opzione possibile. Ecco perché l’uomo è di vetro, come lo definisce Andreaoli ponendo attenzione all’origine dei bisogni per “aiutare ad essere aiutato”. Si concorda nel riconoscere la trasformazione fisica dei disabili, i limiti degli anziani, pochi sono propensi a ritenere che la pazienza mostrata in queste circostanze di fragilità può trasformarsi in occasione di crescita se la propensione a voler essere i migliori si nell’impegno ad essere solo migliori, come ha sollecitato in un suo libro Vito Mancuso. La fragilità, radice ontologica dell’uomo, è un’esperienza ritmata dall’essere limitato e poco efficiente, così delicato da ammalarsi. Ecco perché, prendere spunto da questa fenomenologia, la parola evoca qualcosa che si rompe, inconsistente e debole come il neonato, bisognevole di tutto, l’adolescente e il giovine che devono confrontarsi con incertezze e paure, adulti assillati da avvenimenti imprevisti, chi arriva nella stagione della vecchiaia costretto a dipendere dagli altri, patire il vuoto, precipitare nella tristezza per la perdita dei cari, del lavoro, dalle malattie in attesa di entrare nel buco nero della morte. La società dell’apparire, dell’avere e non dell’essere accetta sempre meno questo tipo di individui. Il mondo patinato tende a nasconderli e li maschera nel proprio narcisismo. Intanto si evapora lo sdegno per il male che producono dolore e ingiustizie; prevalgono passioni tristi che scandiscono l’inverno dell’amore. Di conseguenza, sottovalutare la fragilità sono i valori di riferimento prevalenti nella post-modernità. Si esalta il diritto del più forte, il vincente ad ogni costo, chi risponde all’ideale-tipo dell’efficienza fisica, psicologia, estetica. E’ un apparente successo, dietro la facciata evidente è la sofferenza di chi risulta inetto alla prova e, quindi, costretto ad indossare la maschera per dare spettacolo. |
Una visione più veritiera della fragilità induce a considerare i suoi limiti un baluardo contro fatui deliri di onnipotenza, stimola i legami con gli altri, induce gesti di solidarietà, sentimenti di amore, saggezza di una società che intende far crescere la polis anche se non muta l’esperienza della fragilità perché, come proclama il salmo 102, i giorni dell’uomo sono come l’erba, come fiore del campo. Ha ragione Ungaretti nel descrive l’esperienza della trincea nel bosco di Courton durante la grande guerra. Egli paragona i soldati a foglie autunnali: il loro destino è cadere. Ma i cristiani sanno cogliere la mistica della fragilità. E’ vero, Adamo è un vaso di creta, opaco e delicato, ma se si riflette in Cristo può divenire cristallo duro come il diamante. Occorre contemplare il sacro andando oltre il pensiero logico-discorsivo e praticare l’ascesi nel considerare il mistero, cioè dimostrare di saper cogliere il kairos nel kronos a disposizione dell’uomo per trasformarlo in storia della salvezza.
Elogiare la fragilità non presuppone per forza atti di fede. Infatti, già nei primi anni di formazione nel prendere posizioni rispetto agli eroi dell’Iliade tendenzialmente si sceglie d’impersonare Ettore, pur se incontrata in duello da Achille. Si ammira la luce del pensiero di Socrate morente per obbedire, Gandhi, Luter King, Mandela per la vincente pur se fragile leadership, la umile carità di Teresa di Calcutta o l’operato di Emergency perché i suoi medici abbattono frontiere curando chi ha bisogno, la determinazione di Greta, una ragazza che ricorda a tutti, con la semplice parola, l’obbligo di salvare il pianeta.
Questa fragilità trova nell’abisso dell’emarginazione la forza interiore, rinuncia ad realizza di presunta superiorità, valorizza sinergiche ed empatiche scelte solidali, come ha sperimentato Francesco d’Assisi, la «perfetta letizia». Fondamento di queste idee, di queste situazioni, di questa vita è la Bibbia, che rimane ancora un pilastro della pur traballante civiltà occidentale.
Nelle sacre Scritture troviamo l’esaltazione del fragile, sia esso povero, solo come la vedova o insignificante come un fanciullo, perché anche chi è precipitato in una condizione di fragilità esistenziale e sociale ha una missione. E’ la storia, ad esempio, di Rut, Ester e Giuditta, donne ai margini, Considerato buone soltanto per procreare, che Dio trasforma in leoni di determinazione, capaci di mutare la storia di Israele salvandolo dalla schiavitù. Questa esperienza segna lo stesso Mosè, che implora Dio di non sceglierlo perché balbuziente, imitato da Geremia, incapace di parlare perché giovane e privo di forza. La stessa fragilità codarda di Giona non distoglie Dio dai suoi piani. E Golia, che ride ritenendo Davide una inutile provocazione, non nota dietro al giovane e fragile pastore l’ombra di Jahvè.
E’ fragilità bisognevole di aiuto perché, come si legge nel salmo 39, l’uomo è un soffio, non rimane che meditare sul “male di vivere” per l’insuperabile limite creaturale. Ecco perché la vita è vanità, come asserisce Qhoelet; è Hebel: vuoto incolmabile, nebbia che si dissolve istantaneamente al sole, scia di una nave che solca i mari e non lascia nulla dietro di sé. Perciò dobbiamo convenire con Giobbe: “I miei giorni scorrono veloci come la spola, svaniscono senza più un filo di speranza. Vento è il mio vivere, i miei occhi non contemplano più la felicità” (7,6). Il suo grido dà voce alla nostra protesta e rimbalza nella storia dello spirito umano perché “L’uomo è un triste viandante sulla terra oscura” asserisce Goethe.
Ma questa triste e trista condizione può trovare il suo riscatto, se la si trasforma in una risorsa cominciando a riscoprire il senso del limite di fronte al dolore affrontato con dignità come il silente protagonista del racconto “la notte” di Elie Wiesel. E’ un bambino condannato all’impiccagione con due altri adulti. Mentre i due uomini gridano “viva la libertà”, il piccolo tace e muore. Tra i presenti uno si domanda “dov’è il Buon Dio, dov’è?” Ed una voce nella strofa commenta: “Dov’è? Eccolo: è registrato lì, a quella forca….” Si può contestare l’onnipotenza di Dio, incapace di evitare il male, ma non la sua presenza alla sofferenza e così, per nulla rassegnati, continuare a porgli domande. Consolida questa possibilità la scelta di specchiarsi nell’angoscia provata da Gesù nel Getsemani, di registrare il suo grido sulla croce, evidenza opportunità per i deboli proszioni di precipitati nella vergogna della vergogna fisica. Gesù ha paura della morte e prega: “Padre se è possibile…”. Ma sulla sua pelle fornisce la risposta al mistero del male. Non ricorre a spiegazione facili, come quelle fornite dagli amici di Giobbe, bollate dal povero sofferente “decotti di malva”, opera di “intonacatori di menzogne”. Gesù rigetta la teoria della retribuzione come contrapasso e in Gv 9,1 spiega che il cieco è tale non perché ha peccato lui oi genitori, ma “perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Ma sulla sua pelle fornisce la risposta al mistero del male. Non ricorre a spiegazione facili, come quelle fornite dagli amici di Giobbe, bollate dal povero sofferente “decotti di malva”, opera di “intonacatori di menzogne”. Gesù rigetta la teoria della retribuzione come contrapasso e in Gv 9,1 spiega che il cieco è tale non perché ha peccato lui oi genitori, ma “perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Ma sulla sua pelle fornisce la risposta al mistero del male. Non ricorre a spiegazione facili, come quelle fornite dagli amici di Giobbe, bollate dal povero sofferente “decotti di malva”, opera di “intonacatori di menzogne”. Gesù rigetta la teoria della retribuzione come contrapasso e in Gv 9,1 spiega che il cieco è tale non perché ha peccato lui oi genitori, ma “perché in lui siano manifestate le opere di Dio”.
Cristo considera il dolore sede dell’epifania di Dio scandita con le sette parole pronunciate dopo che è stato crocefisso, emblema ultimo e definitivo della fragilità come dolore e solitudine. Infatti, a chi gli sta a fianco e soffre con lui promette: «Oggi tu sarai con me in paradiso»; invita il ladrone crocefisso, un altro fragilissimo uomo, ad accompagnarsi a lui perché l’unione tra fragili può osare salvezza. Come emerge dal Vangelo, non si soli. Dio rimane accanto a chi soffre per combattere la battaglia della vita. Egli è vicino e non impassibile, un Dio Crocifisso, esperto del dolore in quanto si è incarnato, come scrive Claudel: “non per spiegare la sofferenza”, ma “per riempirla della sua presenza”. A parere di Bonhoeffer egli sceglie non di salvarci dalla sofferenza, ma nella sofferenza; proteggerci non dal dolore, ma nel dolore, liberandoci non dalla morte, ma nella morte. E’ il tesoro di cui disponiamo, anche se custodito “in vasi di creta” per cui, secondo Paolo, “La mia potenza si manifesta pienamente nella capacità».
Questo Gesù è disturba dai “potenti che gestiscono il potere come colui che”, perciò il vecchio inquisitore a loro nome pronuncia la requisitoria di condanna. Ma “Egli, di colpo, in silenzio, si appressa al vecchio e lo bacia sulle esangui labbra di novantenne. Ecco tutta la risposta. Il vecchio sussulta. Un fremito contrae gli angoli della sue labbra”. E’ il bacio dei poveri in spirito, degli afflitti, dei miti, di quelli che hanno fame e sete della giustizia, dei misericordiosi, dei puri di cuore, degli operatori di pace e dei perseguitati a causa della giustizia. Come cristalli fragilissimi, costoro sono capaci di resistere ai secoli, scolpiti col diamante si sono trasformati nell’inno alla fragilità umana grazie alla potenza divina. E’ beato chi si affligge per il dolore perché senza compassione la storia è crudele. è beato chi pratica l’ascesi dello stare accanto, soffrire con gli altri per limitarne il dolore. Così l’amore cresce, anzi non “avrà mai fine” (1Cor12, 7-8). Sono valori non uomini cristiani, ma di una umanità che sa andare oltre le catene di una fragilità apparentemente invincibile. Lo ha dimostrato Gesù, fino alla morte che gli altri hanno giudicato una “stoltezza”. Il suo mite stile di vita lo ha aiutato a decidere tra ingiustizie perpetrate dagli altri, a manifestare il coraggio della profezia, a saper discernere circa gli accadimenti e le persone, non temendo di pronunciare giudizi dissonanti rispetto all’opinione dominante. Così l’amore cresce, anzi non “avrà mai fine” (1Cor12, 7-8). Sono valori non uomini cristiani, ma di una umanità che sa andare oltre le catene di una fragilità apparentemente invincibile. Lo ha dimostrato Gesù, fino alla morte che gli altri hanno giudicato una “stoltezza”. Il suo mite stile di vita lo ha aiutato a decidere tra ingiustizie perpetrate dagli altri, a manifestare il coraggio della profezia, a saper discernere circa gli accadimenti e le persone, non temendo di pronunciare giudizi dissonanti rispetto all’opinione dominante. Così l’amore cresce, anzi non “avrà mai fine” (1Cor12, 7-8). Sono valori non uomini cristiani, ma di una umanità che sa andare oltre le catene di una fragilità apparentemente invincibile. Lo ha dimostrato Gesù, fino alla morte che gli altri hanno giudicato una “stoltezza”. Il suo mite stile di vita lo ha aiutato a decidere tra ingiustizie perpetrate dagli altri, a manifestare il coraggio della profezia, a saper discernere circa gli accadimenti e le persone,
Ma chi non ha fede, chi non si riconosce cristiano e non crede nel figlio di Dio può nutrire una simpatetica devozione nei suoi riguardi? La risposta è affermativa se si interrogano con sagacia e senza prevenzione poeti e letterati che hanno scelto di svolgere la funzione di profeti laici dell’umanità.
Di questa internazionale letteraria si rivela molto istruttivo considerare Ai Qing,uno scrittore cinese che partecipa alla Lunga marcia e collabora all’impianto del regime. La sua composizione “Morte di un Nazareno” è poemetto composto nella prigione di Shanghai a giugno del 1933. Lo scrittore, malato di tubercolosi, che riteneva prossima la fine, s’identifica inconsciamente col Nazareno, portatore di speranza rivoluzionaria, voce dei dimenticati e degli oppressi. Egli è pronto all’estremo sacrificio per amore del prossimo dopo aver letto i Vangeli nella traduzione in cinese ed apprezzato la poesia in particolare del racconto della Passione di Gesù; raffiguranti perciò un Messia solidale con l’umanità, mite e gentile rivoluzionario. Il lavoro in cinque quadri si apre con l’ingresso trionfale nella città santa, ma inquietanti presagi inducono a paragonare la folla in festa a stormi di corvi. Gesù, uomo semplice, premuroso, incline alla misericordia, esaltata dal suo costante sorriso, è consapevole di ciò che lo attende. Il 2° quadro rievoca l’Ultima Cena; il Messia profetizza un mondo trasto nel quale i poveri troveranno consolazione. Nel 3° si descrive cattura, condanna e flagellazione; nel 4° la via dolorosa: Gesù è accompagnato da una folla curiosa di assistere all’esecuzione come ad uno spettacolo. La scena del 5° quadro è ambientata su un pendio scabro, illuminato dal sole. Si stagliano tre croci oscure, un raggio illumina l’iscrizione col motivo della condanna: è l’unica volta che il poeta nomina Gesù, sempre indica come il Nazareno, un saggio che col suo coraggio e con la sua dignità insegna a soffrire, quindi merita rispetto e gratitudine.
Una conferma dell’attrazione esercitata dal Gesù fragile sulla croce la fornisce “Vita di Gesù” del cattolico giapponese Endo. Pubblicata nel 1973, di essa si contano 13 edizioni solo nel Sol Levante. Lo scrittore prende posizione rispetto al non-senso del trionfalismo della Chiesa missionaria e ripropone i motivi del fascino di Cristo crocifisso, pronto ad ospitare tutti i miserabili. Gesù è presentato come il popolo nipponico può comprenderlo. Non ci si sofferma su considerazioni scientifiche sul Gesù storico o teologico, interessa presentare soprattutto un Cristo che si incontra e si scontra col mondo della sofferenza e del dolore, un compagno di viaggio rifiutato perché debole e proprio in questo modo mostra la sua forza. Per la religiosità giapponese questo Gesù dallo sguardo triste impersona bene secondo l’autore l’anima nipponica per la quale «il debole Gesù» è «il vero Gesù», incarnazione dell’ impotenza dell’amore e per questo simbolo dell’amore di Dio che si riflette nel volto di Cristo. Quindi diventare cristiani è imitare Lui: «impegnarsi ad essere ‘deboli’ su questa terra» come fragile è il seme nel guscio, ma capace di germinare producendo la fioritura-risurrezione. Nel parlare alla sensibilità giapponese questo Gesù viene presentato denso di pietas, uno sguardo sofferente per i dolori dell’uomo nel silenzio di Dio. Il comportamento evidenzia che in Lui c’è qualcosa di essenziale che ci sfugge.
Per il russo Bulgakov è la sua divinità, manifestata nella sua somma umanità. Quindi, proprio sulla croce, nell’apparente trionfo del male satanico, si verifica l’ultima prova, che è anche la prima definitiva vittoria sul male di Jeshua, Questi, perdonando, manifesta di possedere una misericordia senza limiti, vince potenze diaboliche e afferma la divinità. E’ un Gesù irraggiungibile, affascinante, incomprensibile per entrare in relazione con poveri, miserabili, umiliati, offesi. La sua compassionevole carità è spinta fino al sacrificio supremo rivelandosi secondo Dostoevskij suprema personalità morale: il Cristo glorificato non cancella i dolori del condannato a morte, il sudore della solitaria agonia, può essere giudice misericordioso perché è uomo dei dolori che in un fragile vaso di coccio imprigiona la luce di Dio.