La scuola di teologia per laici della diocesi di Vallo non offre un corso di storia della chiesa locale, argomento necessario per aiutare i laici ad acquisire l’indispensabile ruolo di protagonisti nell’animazione pastorale nelle parrocchie. Intanto a breve dovrebbe iniziare la Visita pastorale, opportunità per riflettere sulla situazione attuale e sulle prospettive per il futuro. Si propone, perciò, una riflessione settimanale sulla storia della diocesi nel XX secolo, premessa per una critica acquisizione di responsabilità dei fedeli nella chiesa locale. Il proposito si lega anche alla positiva esperienza fatta nel leggere il saggio relativo all’azione di mons. Nicodemo, giovane sacerdote a Vallo, volume che lunedì prossimo presenterà l’arcivescovo di Bari, mons. Cacucci, ordinato sacerdote nel capoluogo pugliese proprio da mons. Nicodemo, del quale è divenuto successore. La lettura del saggio di Manlio Morra fa conoscere non solo l’azione svolta dal presbitero nei 17 anni di permanenza a Vallo, ma aiuta a delineare la storia della diocesi evidenziando luci ed ombre di una realtà religiosa che ha segnato anche la società civile. Da qui l’utilità di una riflessione che consenta di scavare nel profondo dell’animo religioso per cercare di comprendere caratteristiche, ritualità, opzioni, problemi e prospettive grazie ad un metodo olistico capace di stimolare una lettura critica del presente per rendere meno problematico il futuro di una popolazione che dovrebbe gestire da protagoniste risorse, porre riparo a disfunzioni, esercitare una consapevole e partecipata presenza per contribuire alla crescita complessiva del paese.
Recuperare una pietà popolare radicata ed esemplare, bene orientata dalla pedagogia dell’evangelizzazione, consente di scoprire i valori positivi insiti nella religiosità. Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere, rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede, comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: paternità, provvidenza, presenza amorosa e costante, genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove: pazienza, distacco, apertura agli altri. Per questi aspetti la chiamano pietà popolare, cioè religione di popolo piuttosto che religiosità. E’ il parere di Paolo VI al numero 48 di Evangelii Nuntindi del dicembre 1975. Si giustifica il processo d’inculturazione, che è altra cosa rispetto al colonialismo culturale; infatti, non soffoca le manifestazioni di pietà popolare, ma le purifica e mette in evidenza gli aspetti positivi, approfondisce con saggezza cristiana i grandi interrogativi dell’esistenza. Perciò, sopprimere le feste risulterebbe non solo una grave perdita, ma anche un atto di superbia verso la fede dei semplici. La religiosità riguarda Dio, ma anche l’uomo, con la sue speranze e le sue paure, il suo destino, il suo futuro, il suo giudizio della vita, il senso della sua esistenza. Essa si lega al sociale, al politico, all’economico, al civile, al culturale. Appesantiti dai giochi della società mediatica e schiacciati dalle abitudini dimentichiamo, a volte, che il Vangelo corre se i piedi del messaggero sono sospinti dallo Spirito. La strada e l’ascolto degli umili costituiscono la grande scuola per essere vicini alle attese e alle ansie della gente ed evitare di sollecitare l’amore senza saper amare, esaltare il perdono senza voler perdonare, moltiplicare la ricchezza e non distribuirla.
L’analisi che si propone ha anche la finalità di porre riparo ad un intollerabile stereotipo che si tramanda da secoli. Esso ha avuto una presunta definitiva sanzione col moltiplicarsi di saggi di storia sociale e religiosa nei quali sono state analizzate le relazioni tra vescovi e popolo. In essi è stato enfatizzato l’emergere di credenze magiche per colpa di un clero refrattario, onda lunga di una perversa considerazione di Roma verso questa terra. Si è sovente dimenticato che la regione è stata una particolarissima frontiera. Dal punto di vista religioso qui hanno convissuto due civiltà, i due polmoni dell’Europa, come li ha definiti Giovanni Paolo II. Vi ha prevalso la versione italo-greca del cristianesimo, che ha impregnato di sé le vicende socio-economiche, quasi un’isola di civiltà, col passare dei secoli considerata un deserto avverso alla modernità.
Riflettere sulla storia della diocesi di Vallo nel XX secolo significa cogliere anche le ragioni di una incomprensione alla quale ancora non si è posto effettivo rimedio. Si ripetono, infatti, scelte imposte dell’esterno, non sempre idonee per corrispondere alle attese e ai bisogni socio-religiosi della popolazione. Le incomprensioni sono attestate da tanta documentazione che riconferma la tendenza romana a preferire la vigilanza ispettiva inviando visitatori pronti a descrivere con una minuzia sospetta e pelosa difetti, limiti e scandali. Quasi mai ci si pone il perché o si cerca d’individuare le cause profonde di certi comportamenti.
Nel 1900 si dimise, ritirandosi ad Eboli, il Vescovo diocesano mons. Maglione; terminava un episcopato che aveva cercato di contenere una crisi trascinatasi per decenni. Fu nominato un giovane presule, sensibile alle sollecitazioni della Rerum novarum di Leone XIII. Egli cominciò ad operare sollecitando aperture verso la pastorale sociale, ma dopo pochissimi anni dovette confrontarsi con le decisioni restauratrici del nuovo pontefice, succube di azioni ispettive di vero spionaggio per paura dell’idra modernista. A Vallo venne inviato come visitatore apostolico padre Santarelli. Con cipiglio notarile e curiosità morbosa, questo religioso riferì di un clero degno delle novelle del Decamerone. Mons. Jacuzio dovette intervenire per evidenziare palesi esagerazioni, notate per la verità anche dai cardinali che in congregazione commentavano la relazione del visitatore.
Nel documento manca qualsiasi prospettiva storica o riferimento alle gravi contingenze abbattutesi sulla diocesi determinandone il progressivo sbandamento. La confusione del 1799, le novità sociopolitiche del decennio francese, le disposizioni concordatarie del 1818, il radicarsi dell’abbraccio mortale tra trono borbonico e altare, l’anelito al nuovo di una consistente fetta del ceto dirigente borghese, la progressiva ruralizzazione del consenso religioso, aneliti costituzionali, riflessi risorgimentali, rivoluzione unitaria, la tirannia del regio patronato, gli effetti economici dell’incontro e dello scontro col mercato, crisi agraria ed emigrazione, fine della chiesa ricettizia, soppressione di conventi e sequestro dei beni, grave crisi del clero hanno scandito l’Ottocento cilentano ed indebolito la capacità di resistenza di strutture ecclesiastiche ormai boccheggianti. Intanto si è sollecitata la persistenza di modelli che non avevano mai avuto un riscontro di partecipata accettazione nelle piccole parrocchie della diocesi. Veniva esaltata l’obbedienza cieca rispetto all’attenzione ai problemi esistenziali e alla predisposizione ad avviare riforme necessarie, ancorché radicali.
Le conseguenze sono evidenti perché in nessun luogo è possibile annunciare la speranza prescindendo da un esame attento della realtà sociale e delle attese del popolo. La diocesi subisce le conseguenze della distanza non solo spaziale dalla città e dai processi di modernizzazione. Traumatiche sono la fine del suo evo moderno e l’apertura alla contemporaneità, mentre al proprio interno persiste il portato dei problemi culturali e morali di una specifica e secolare stratificazione.
Un’analisi storica adeguata aiuta a cogliere dinamiche antropologiche, tendenze dell’inconscio collettivo, di un noi ecclesiale al quale non si può rispondere solo con un super ego di rigide prescrizioni per evitare d’insidiare la maturazione di un ego cosciente, che anche in questo territorio incarna la salvezza cristiana, la quale continua ad esprimersi nella coscienza degli uomini. Essere testimoni, custodi, ispettori e difensori di questo cristianesimo è compito di tutte le componenti dell’ecclesia. Esse trovano garanzia di unità nel vescovo. Questi dell’anello episcopale non fa un mero simbolo, ma il riferimento costante all’impegno di confermare i propri fratelli nella fede. Felice, perciò, le diocesi che possono vantare un vescovo espressione del loro presbiterio. La vicenda di mons. Nicodemo, giovane prete a Vallo, diventa perciò l’occasione per riflettere sull’identità socio-religiosa di una comunità da scoprire, conoscere, apprezzare e difendere. La riflessione corale si trasforma in un contributo per garantire efficacia alla visita pastorale soprattutto se sollecita aperture mentali contro fanatismi ossessivi, integralismi aggressivi, sterili tradizionalismi per confrontarsi col presente e trovare soluzioni coerenti al Vangelo.
L’esperienza cristiana nella chiesa diocesana in una prospettiva paolina non nasconde le pene del lungo cammino, il gemere dell’uomo per le implicite difficoltà dell’incontro nell’evo terreno del già dell’avvenuta Salvezza col non ancora della sua esperienza storica. Gli elementi più significativi del vangelo di Gesù diventano strumento critico e giustificato allarme per la progressiva e rapida scristianizzazione. Tuttavia, nel contesto diocesano scompaginato da una imperante secolarizzazione, sono ancora riscontrabili molteplici manifestazioni di vita quotidiana nelle quali rinvenire una pervadente aspirazione all’incontro salvifico con Dio. Da qui l’attenzione al tipo di cristianesimo prospettato dalle strutture religiose e quello effettivamente vissuto dal singolo e dal popolo, i modelli propagandati e l’uso che se n’è fatto nella predicazione e nella legislazione, il rispetto delle pratiche raccomandate e la fedeltà agli insegnamenti del catechismo, consistenza e forza di penetrazione del sensus fidelium, capacità di vivere in modo consapevole la propria fede. Il cristianesimo evangelico rimane il modello, ma il diffuso bisogno di salvezza si amalgama con rozze nozioni di redenzione, assoluzione dei peccati, devozione e richiesta di perdono, anche se una certa miscredenza spinge a ritenere che religioso e cristiano non necessariamente coincidano.
Nel riproporre modelli di comportamento secondo le modalità sollecitate già da Gesù nel Vangelo si richiede una considerevole dose di pazienza e un costante riferimento alla pedagogia della rivelazione, vissuta grazie al rinnovamento conciliare, che ha ridimensionato vecchi ritualismi. Il risveglio religioso è un sintomo della diffusa inquietudine della collettività che ricorre al sacro, le cui manifestazioni simboliche costituiscono una risorsa per ogni individuo, credente o agnostico. I cristiani identificano il sacro col santo, che aiuta a radicare sentimenti in grado di riscoprire la ragioni dell’anima e del mondo, il destino dell’uomo, i perché della vita e della morte. Ritornano attuali le domande sul rapporto tra uomo e Dio, che inducono il singolo e la società ad alimentarsi anche d’istanze spirituali, le quali coniugano esperienze passate con le attese del futuro, assicurando alla comunità conforto, antidoti e viatico. La riflessione evidenzia la possibilità di percepire la propria vita come storia della salvezza, percorso critico ed analitico che conferisce spessore al bisogno di capire che la vicenda storica è un coacervo nel quale si riflettono, come in uno specchio, il secolo di cesare e l’eterno di Dio.