Quella strada costiera che da Vietri sul Mare giunge sino a Positano in un susseguirsi di curve che di svolta in svolta disvelano paesi marini e case arrampicate tra maceri mentre salite verso la rampante roccia si alternano a discese verso i brevi litorali, è strada montuosamente marina, a richiamo di poeta, sulla quale si affacciano agili campanili a ritaglio di spazio tra il verde di limoni e viti. “Un sogno dire queste case vere”, scriveva Alfonso Gatto, mentre disegnava una terra dipinta con poetiche parole d’amore. Un luogo dell’anima per letterati e pittori, un rifugio dalla storia per quegli esuli russi e tedeschi che fuggivano dai due più grandi totalitarismi della storia: il bolscevismo e il nazismo.
E così la Diva Costa è stata scrutata, meditata, descritta, dipinta, amata e portata nel cuore per i tanti che negli anni l’hanno percorsa, abitata, o semplicemente soggiornata.
Era il 1931 quando a Vietri sul Mare giunse Emilio Cecchi, giornalista del “Corriere della Sera” e scrittore di grande valenza, formatosi prima al “Leonardo” di Giovanni Papini e poi a “La Voce” di Giuseppe Prezzolini. Spinto dalla sua curiosità giornalistica, lo scrittore fiorentino si avventurò nella conoscenza della bottega ceramica e, in una stanza della fabbrica di don Vincenzo Pinto, scoprì il fascino silenzioso del lavoro del torniante. E fu “Il Vasaio” uno dei testi più belli della letteratura del ‘900. Scriveva Cecchi: «La ruota frullava così silenziosa che della presenza del vasaio, seduto al suo lavoro, m’accorsi soltanto dopo un po’ ch’ero entrato. Era un ometto sulla sessantina; i baffi e i cernecchi d’un grigio verdognolo come la terra della quale erano schizzate ed intrise la faccia, il vestito e le mani; e insomma anche lui pareva impastato d’argilla». Quel vasaio, entrato a sua insaputa nella storia letteraria italiana, era Vincenzo Solimene padre, anche se Cecchi non lo nomina; per questo Prezzolini dirà: «e siccome non è nominato, si può dir che, così anonimo, veramente raffiguri le virtù del popolo tutto di Vietri».
Passarono alcuni anni e anche Giuseppe Prezzolini approdò a Vietri sul Mare. Era un tiepido pomeriggio autunnale del 1962 quando, proveniente da Ravello, Prezzolini, distinto ottantenne, prese casa a Vietri, in cerca di «tranquillità, serenità e pace che nelle sue precedenti dimore in vari punti del mondo difettavano». La cittadina costiera conquistò il Professore, come lo chiamavano tutti, «per quella sua aria, in un certo senso, un po’ “isolata” – annotava -; abbiamo trovato a Vietri qualche cosa che fa per noi. Vedo un angolo di Mediterraneo in una cornice di piante verdissime e c’è sole, quando è bello, da tutte le parti…». Su sollecitazione del Professore e l’interessamento dell’allora parroco don Luigi Magliano, l’11 aprile 1965 vide la luce “L’Amico di Vietri” quindicinale realizzato da alcuni giovani locali. Il professore, divenuto cittadino onorario vietrese, onorò quella nascita con “Dalla mia terrazza di Vietri sul Mare”, un mirabile testo di prosa, che si fa poesia dove il sogno e la realtà si fondono e mettono a nudo un aspetto certamente poco conosciuto del lucido e analitico scrittore. Scriveva: «Sotto la mia terrazza, fra due piccoli faraglioni, i ragazzi si tuffano nell’acqua, appaiono, scompaiono. Quando rimettono fuori la testa mi gridano “Vieni giù, professore, son diventato un pesce”. Anch’io vorrei diventare un’altra cosa, ma non posso diventare un pesce… Quei ragazzi non sanno che invece io mi trasformo in nuvola…». A Vietri Prezzolini trascorreva i giorni della “pensione” senza affanni, ma anche senza riposo, anzi qui prese corpo uno dei suoi libri di maggiore provocazione intellettuale: “Dio è un rischio”, definito, in prefazione, da Giulio Andreotti «la storia di una ricerca, durata una vita».
Il meditato lavoro cominciò a formarsi nella sacrestia della chiesa di S. Antonio da Padova a Marina di Vietri, con una serie di conversazioni che il Professore amava avere con il parroco don Attilio Della Porta, storico attento, con il quale si incontrava la domenica dopo la Messa, alla quale il professore partecipava per ascoltare le omelie del sacerdote. A conclusione del lavoro il professore annotava: «E’ un documento, una confessione, un finale, un testamento, è forse il grido di un solitario che chiede compagnia o il commiato d’un vecchio dai giovani d’oggi ed un annunzio ai giovani che nasceranno dai giovani d’oggi. E’ un libro senza Dio, che trova il posto a Dio, per chiunque abbia un Dio che debba trovare un posto».
Ritorna alla mente quell’infinito spazio cielo-mare che il professore contemplava dalla sua terrazza.
Ma cos’è una terrazza? «E’ un nido ben costruito con i fili del silenzio» scriveva Stefan Andres della sua ultima casa, quella in alto, vicino al cimitero di Positano, dove lo scrittore tedesco abitò a partire dal 1937. Nel saggio autobiografico “Terrazze nella luce”, così la descrive: «una vecchissima ed un tempo comoda casa, che però adesso si stava sgretolando lentamente, e nelle sue massicce pareti piene di crepe avevano messo radici erbe e fiori». Emigrato dalla Germania nazista perché in contrasto col regime e per aver sposato una donna “mezza ebrea”, cercava una “distanza dal mondo”. Trovò rifugio nella appartata Positano come tanti altri esuli, che si ritrovavano tutti al “Bar Risorgimento” di Giacomino: «Erano artisti, eremiti e stravaganti di mezzo mondo – ricordava Andres – i quali nell’orologio del campanile, che stava fuori da tutti gli orari, vedevano il simbolo della loro volontà di nascondersi per un paio d’anni ai margini della storia, sottraendosi alle sue sfide».
Un paese discreto, di poche case che nel 1927 era stato descritto da Riccardo Bacchelli, 36enne giornalista del Corriere della Sera, che percorreva la penisola raccontando “L’Italia per terra e per mare”. Scriveva: «Arrivando si vedono i tetti a cupola schiacciata, appresi dalle fogge moresche. Son fatti d’uno scuro battuto di calcestruzzo e il lume di luna, splendido sul mare, pare che vi muoia sopra senza riflessi. La Valle che più s’interna e che dà roccia ed appoggio al grosso del paese, è quella di mezzo, detta Valle di Porto», che in alto aveva la “Casina del principe” un padiglione abitato per anni da Valy Myers, danzatrice australiana, ultima esistenzialista italiana che ha difeso quell’eden dalla modernità distruttrice. Valy, spirito libero e pieno di voglia di vivere, fu la musa ispiratrice di Tennessee Williams, che disegnò Carol Cutrere, della commedia teatrale “Orpheus Descending”, a misura di lei. Lo scrittore conobbe Vali Myers, ai tavoli della Buca di Bacco, durante una cena.
Ma Valy non fu la sola donna a conquistare Williams. Per Anna Magnani, infatti, scrisse espressamente “La rosa tatuata” da rappresentare a Brodway, ma fu poi la splendida riduzione cinematografica con Bud Lancaster, che fruttò alla Magnani l’Oscar 1956 come migliore attrice protagonista. Per lo scrittore americano la frequentazione di Positano aveva il sapore di un abbandono tra le braccia di quella che chiamava la sua “amante segreta”.
Il grande drammaturgo e poeta statunitense giunse a Positano a metà degli anni ’50 su suggerimento di Norman Douglas e dopo aver letto il meraviglioso articolo “Positano” di John Steinbeck, pubblicato nel 1953 su Harper’s Bazaar: e fu subito il luogo sempre cercato dall’uomo dai profondi tormenti e dal letterato che trasferiva l’anima in ogni suo lavoro.
A consigliare, invece, Steinbeck a visitare Positano fu Alberto Moravia, durante un estivo incontro romano: «Andate a Positano, sulla costa amalfitana? E’ uno dei più bei posti d’Italia», suggerimento che fu rafforzato da John Mc Knight dell’USIS. Così, in quell’afosa estate del 1952, Steinbeck e la moglie Elaine giunsero a Positano prendendo alloggio alle Sirenuse, una vecchia casa padronale trasformata in albergo di prim’ordine. E fu subito rapimento! Chiedendosi cosa fosse veramente Positano, scrisse: «E’ un posto di sogno che non vi sembra vero finché ci siete, ma di cui sentite con nostalgia tutta la profonda realtà quando l’avete lasciato». Il Nobel per la letteratura 1962 venne spesso nella cittadina costiera, prendendo alloggio in una camera con affaccio sulla scala dei leoni, sopra la bottega del calzolaio Enrico Mascolo, conosciuto in paese come “maste Nicola”, un personaggio incredibile e irripetibile, di quelli che piacevano a Steinbeck, per essere nel contempo ruspante e saccentone, un po’ filosofo e un po’ ingenuo. La stanza all’epoca era di proprietà della “Buca di Bacco”, ristorante dove lo scrittore consumava i pasti. Ricordava il maitre Cesare Feraboli che a Steinbeck piaceva mangiare con il personale e gustava particolarmente la pasta e fagioli. Durante una intervista al compianto collega Luca Vespoli, alla domanda se poteva esserci una ragione per cui non sarebbe più tornato a Positano, rispose in modo lapidario: «Si, la morte».
Desiderio di Costiera Amalfitana lo ebbe anche un altro Nobel per la Letteratura: Salvatore Quasimodo, che giunse ad Amalfi il 20 gennaio 1966 su invito dell’allora Presidente dell’Azienda di Soggiorno e Turismo, Giuseppe Liuccio; gli aveva detto per telefono: «Amalfi mi manca, ma so per certo che è un pezzo di paradiso. Se mi inviti ti vengo a trovare. La solarità mediterranea della tua Amalfi mi ripagherà per qualche giorno della uggiosità delle nebbie lombarde». Fu ospitato all’Hotel Cappuccini, dove ad attenderlo erano i proprietari don Peppino Aielli con la signora Anna la quale, con la garbata signorilità di sempre, accolse Quasimodo con un “Benvenuto nella nostra città e nella mia casa”. Quasi di getto, il poeta rispose: “Sono a casa mia, signora. Questo è il Sud, il mio Sud. Qui respiro aria e profumi della mia Sicilia”. In seguito il poeta, nel suo “Elogio di Amalfi”, annotò: «Non ricordavo da tanto tempo un’aria che sapesse di mirto e un profilo di cipressi e pini come ad Amalfi, dove i fiori gialli del trifoglio sono già aperti nel gennaio, a Nord ancora duro di ghiacci, e le sorgenti filtrano sulle rocce levigate dal passo di preghiere dei Cappuccini…». Ricordando questo soggiorno del padre, Alessandro Quasimodo disse: «Amalfi era diventata per lui come Tindari: il suo paesaggio, le isole del dio, il vento della memoria ricreavano per lui un paesaggio dell’anima che portava quasi ad una identificazione tra le due terre». Annoterà il Nobel: «Un’eco del pensiero con le cadenze ugualmente mediterranee della mia Isola».
Quasi in sussurro il poeta aveva detto: «Più nessuno mi porterà al Sud». Invece uno strano destino lo attese ad Amalfi dove «è facile dimenticare la morte». Nato nell’isola del Ciclope, Quasimodo si spegneva nel mare di Ulisse, con il richiamo d’amore delle Sirene.
E ad Amalfi, nell’estate del 1879, era giunto anche Henrik Ibsen, scrittore norvegese, per una sorta di vacanza. Aveva scritto al suo editore: «Per motivi di salute abbiamo cambiato il nostro progetto originario relativo alle vacanze estive. Avevamo pensato a un paesino di montagna qui nei dintorni, poi ci siamo decisi per Amalfi sulla costa a sud di Napoli, dove c’è la possibilità di rinfrescarsi con bagni di mare. In un certo senso ciò ritarderà il completamento del mio dramma». Un timore infondato, perché qui ad Amalfi lo scrittore terminò prima la versione definitiva di “Casa di bambola”, un’opera che toccava problemi all’epoca particolarmente scottanti. Scriverà all’editore: «Amalfi ha contribuito molto alla riuscita di questo lavoro, come era nel mio sogno. Vi ho trovato una calma come non mai nella mia vita, e la salute è ottima». E quando la cittadina costiera abbia influito sul lavoro del poeta, lo si riscontra nella frenetica tarantella che Nora, la protagonista, balla nel salotto di casa in costume da pescatrice napoletana; danza cui Ibsen aveva assistito ad Amalfi.
Se non pochi imbarazzi suscitò l’opera del norvegese Ibsen, fece addirittura scandalo “L’Immoraliste” del francese Andrè Gide, che giunse a Ravello nel 1897: si fermò tre settimane, alloggiando all’Hotel Palumbo. La cittadina costiera assunse un significato simbolico nell’evoluzione del protagonista-autore per la sua guarigione dalla tubercolosi e per la “rinascita intima”, avvicinamento ad una vita «più ricca e più piena verso le delizie di una nuova felicità»; pensava che nulla impedisce la felicità come il ricordo della felicità. Gide annoterà: «Questo cielo del Sud mi tormenta come una cornice di felicità impossibile». Un cielo e un Sud, ampiamente presenti nell’opera dello scrittore premio Nobel per la letteratura 1947.
E a Ravello trovò il suo buen retiro lo scrittore americano Gore Vidal. «Ricordo che sono giunto a Ravello nel mese di marzo del 1948, non a dorso di mulo come Wagner, ma in compagnia del mio amico Tennessee Williams. Partimmo, anzi fuggimmo da Roma a bordo di una jeep militare per una gita a Napoli e dintorni. A Ravello trovammo immediatamente la nostra pace». Era il 1968 quando lo scrittore americano ritornò a Ravello prendendo alloggio all’Hotel Caruso; la visione immaginifica che aveva sull’infinito da quella stanza nr.9 lo soggiogò… e fu “Myra Breckinridge”, romanzo feroce e dissacrante del mito di Hollywood e del “sogno americano”, costruito nel silenzio meditativo di questo paese più vicino al cielo che alla terra.
Il fascino di Ravello era stato così profondo che, nel 1972 Vidal acquistò villa “La Rondinaia”, qualcosa tra il sogno e la fantasia, a suo tempo ricavata da Sir Ernest William Beckett, Lord Grimthorpe, dopo aver rubato lo spazio alla montagna. E fu, quella villa, protagonista fidata dei due volumi di memorie di Vidal: «La stanza dove lavoro è un cubo bianco con un soffitto ad arco e, alla mia sinistra, una finestra che dà sul Golfo di Salerno in direzione di Paestum». Luogo vissuto con profonda intimità, che portò spesso lo scrittore a dire: «Io non vivo a Ravello, io vivo alla Rondinaia». In questo “nido di rondini” a strapiombo sul mare Gore Vidal visse, per 33 anni, lunghi periodi, scrivendo saggi, romanzi, sceneggiature. Un pomeriggio di mezza estate, sul balconcino de “La Rondinaia” affacciato sullo strapiombo marino, che fa da sfondo ai paesi di Maiori e Minori, Luca Vespoli, intervistandolo, gli chiese se lui si considerasse uno scrittore di destra, di centro o di sinistra. Rispose: «In Russia, dove i miei libri sono molto conosciuti, sono considerato di destra, in America di sinistra e a Ravello in… paradiso».
Ravello, «città moresca, con torri e case dai fantastici arabeschi…» come ebbe a descriverla nel 1856 Ferdinand Gregorovius, il primo “viaggiatore” che percorse la nuova strada amalfitana, inaugurata tre anni prima dal re Ferdinando II di Borbone. Il medievista tedesco sull’onda dell’Italienische Reise aveva descritto nei suoi appunti l’intero tragitto della Costiera Amalfitana: «Il primo paese su questa strada è vicino Salerno e si chiama Vietri. Vi è tagliata una profonda e gigantesca gola, nella quale si precipita un corso d’acqua che dà moto a molti mulini». E paese dopo paese, Gregorovius giunse a Ravello: «Qui il mondo è scomparso; non vi è niente altro che alberi e rocce…», rimanendo letteralmente incantato di fronte allo scenario osservato dal belvedere di Villa Cimbrone, una veduta «che bisogna ammirare e tacere, anziché provarsi a farne la descrizione».
Una Costiera da ammirare, da vivere, che si fece rifugio dalla storia per tanti esuli, come Vietri dove era una colonia di artisti stranieri mittleuropei molti dei quali di razza ebraica. E a Vietri era Irene Kowaliska, ceramista polacca, che attirò per amore il poeta Armin T. Wegner, giunto su questa costa, per salvezza, dopo aver scritto ad Hitler una lettera in difesa degli ebrei. Ma ancor prima Wegner aveva fotograficamente documentato l’eccidio degli Armeni da parte del popolo turco. Wegner e la Kowaliska trovarono il loro nido d’amore a Positano, prendendo in fitto la “Casa dei sette venti”. A Positano il poeta ritrovò la sua dimensione, la serenità, la sua vitalità. Scriveva: «Lo spazio visibile e l’invisibile si fondono l’uno nell’altro e, al di là di ogni parola e immagine, si schiude l’eternità».
Vito Pinto