Il brutto tempo dell’ultimo week end non ha intaccato l’entusiasmo per un minitrekking nella “Insolita Lucania”. C’ero già stata in Basilicata, di passaggio, e ricordavo i manti di erba verde a destra e sinistra dei finestrini, colline come le onde dei primi screen di Window…
Ma ora che ci sono tornata, pure sotto una pioggerella grigia, i piedi erano pronti a calpestare l’entroterra, i boschi, le foglie secche e il percorso delle Sette Pietre, che da Pietrapertosa porta alle Dolomiti di Castelmezzano. Sette pietre che raccontano la storia d’amore del contadino Vito per una strega: sortilegio … ballo… delirio… Un ponte romano sul torrente Caperrino fa mostra di acque verdissime tra le rocce, in mezzo ai segreti di sculture tra gli alberi. Alzi gli occhi e vedi le funi del Volo dell’Angelo, che collegano le punte affilate della montagna.
Castelmezzano ha colori pastello, addossato alla falda, con vicoli stretti e bar dove, per ammirare meglio, hai bisogno di un punch forte, perché l’aria è davvero pungente.
Prima di salire su un pullmino che aggredisce tornanti in sequenza, tra le colline marroni dell’inverno, diretto ai ruderi di Campomaggiore. Una sorpresa, un altro teatro si presenta agli occhi: di fronte, su un prato verde si innalzano i frammenti di quelle che un tempo erano case, botteghe, un palazzo magnifico. I resti delle pareti sembrano dita sollevate a un cielo poco generoso, che implorano visibilità dal passato. Non dimenticare, dicono.
Nel 1741 la vedova del Conte Rendina fondò questo borgo e figli e nipoti ne fecero un esempio di architettura di progresso, per togliere miseria ai contadini, l’incontro tra nobiltà e povertà, lavoro e remunerazione. Una casa di venti palmi per ciascuno dei coloni, tutte aggregate, con servizi comuni, e terre da coltivare. Un forno, una chiesa, un municipio, tutto raccolto intorno al palazzo dei Rendina. In un piccolo borgo lontano da ogni capitale, qui si era realizzata l’utopia. Un esperimento durato un secolo e mezzo, perché il 10 febbraio 1885 un eccesso di piogge si portò dietro un fianco di collina, e l’intero borgo di Campomaggiore. Tutti furono costretti a lasciare, andare altrove.
Cos’è se non un sortilegio anche questo, una strega di nome Frana impegnata a contrastare la concorrente Fortuna, a riportare l’ingiusto ordine delle cose.
Il cielo è grigio, le nuvole si addensano verso il pullmino perché è ora di chiudere, lasciare al buio le dita alzate al cielo, le finestre aperte del palazzo al centro del prato, perché solo il buio è il loro custode, le prende in consegna come un amante geloso della loro resistenza, della loro fragilità.
Una pianta di rosa antica antica è fiorita tra i ruderi, nonostante il freddo, e attraverso quella dò un ultimo sguardo.
A Tricarico invece i colori non sono pastello, né grigi. Tra strade e vicoli dei quartieri arabi a labirinto, o dei quartieri normanni, c’è la luce sul paesaggio, sulle scale in pendenza, sulle poesie di Rocco Scotellaro, sulla torre Normanna che impera. All’interno del convento di Santa Chiara una grata impone il Silentium. E non si può che stare in silenzio, immaginando ricche suore in clausura dietro di quella, tra gli affreschi della cappella segreta. E la camera di scolo, sotto i piedi, chiusa da una botola con due anelli di ferro.
E poi si celebra il Carnevale, a Tricarico: nastri colorati si agitano sulle schiene scendendo dai cappelli, i visi coperti da un merletto bianco di uomini che interpretano le vacche in transumanza, in una tuta di lana bianca, fazzoletti colorati alle ginocchia e alle braccia, e suoni di campanacci, tanti, forti, che devono arrivare alla pancia. I tori, pochi, sono vestiti di nero col foulard rosso, a guidare e scegliere le vacche preferite.
Le maschere di Tricarico sono sempre le stesse, ogni anno, un gregge rumoroso che invade le strade a testimoniare l’anima della cultura contadina, che fa a meno di ogni utopia. In Basilicata, come nel Cilento e in tante province del Sud.