È tradizione consolidata da lungo tempo: il 1° maggio i Romani hanno l’abitudine della scampagnata fuori porta, quasi sempre nell’agro romano/laziale, a scialo di fave e pecorino bagnato da fiaschi di “frascati rosso” e frizzantino, con immancabile coda di stornelli in coro nella cornice profumata della campagna in fiore. È una usanza che ha contagiato buona parte del Lazio a trasmigrazione di Umbria e Abbruzzo, da una parte, e Ciociaria, Sannio e Campania lungo la domiziana, lato mare, e fino a Caserta nelle zone interne, dall’altra. Nel Salernitano, invece, soprattutto nella zona sud (Cilento, Vallo di Diano e Golfo di Policastro) c’è un’altra bella tradizione, quella della “cecciata/cuccìa”, anch’essa radicata da tempo qui nelle antichissime tradizioni contadine, importate, pare, addirittura dai coloni greci che giunsero in queste contrade nel V° VI° secolo a.C. Esempi evidenti e significativi si ritrovano nelle numerose manifestazioni folcloristiche che si tramandano, di generazione in generazione, in alcuni centri del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni. È il caso di Casaletto Spartano, dove il 1º maggio gruppi di giovanotti questuanti vanno di casa in casa a chiedere legumi di ogni tipo (tredici per l’esattezza): fave, ceci, fagioli, piselli, lenticchie, dolache, cicerchie, orzo, farro, segale, avena(biada), miglio) con qualche aggiunta variabile di patate novelle, cipollotti ed erbe aromatiche (basilico e finocchietto selvatico, soprattutto). Quelli raccolti vengono cotti separatamente e poi la sera nella piazza del paese sono preparati tutti insieme in una grande caldaia e conditi con olio e sale. I paesani ne prendono una porzione come augurio di prosperità e abbondanza per i raccolti futuri. Il simbolo sta proprio nel consumare tutta la raccolta dell’anno precedente ed inaugurare la nuova fresca di stagione. Questo caratteristico piatto, con qualche immancabile variante, è consumato in tutto il Cilento e in particolare nel Golfo di Policastro, dove si chiama “Cuccìa”, dal greco (“kykeon“= miscuglio). Nel paese di Ispani, e precisamente nella frazione di San Cristoforo, un terrazzo spalancato sul mare dei miti e della Grande Storia con, da un lato, il Monte Bulgheria, mostro marino con i piedi nell’acqua e la testa a conquista di cielo, ed il Cristo di Maratea benedicente a braccia spalancate verso la Sicilia e le Eolie lontane spesso fumanti di lava, dall’altro, viene allestita ogni anno ad agosto la “Sagra della Cuccìa”, appunto, a beneficio dei turisti, con una sfilata di costumi d’epoca, canti e balli. Al culmine della serata viene servito il tradizionale gustosissimo piatto, che è diffusissimo, anche se con altri nomi, anche nel resto del Cilento. A Cicerale si chiama “cecciata”, a Castel San Lorenzo e Stio è noto come “cicci maritati”. Questa usanza/ritualità deriva dai greci, che la chiamavano “panspermia” = tutti i semi, una minestra ottenuta da di tutti i semi, appunto, diffusissima nella Grecia arcaica. Ne hanno scritto Timeo ed il grande Platone a proposito dell’azione divina della semenza universale.
Ed ora qualche breve notizia storica su alcuni dei legumi.
Una leggenda antica narra che Demetra impedì ai sacerdoti di Eleusi di mangiare le fave. Il motivo di questo divieto si trova anche tra gli orfici e i pitagorici perché le fave impedivano di mantenersi puri, in quanto per una strana credenza si riteneva che cibarsi di questo legume equivaleva a mangiare le teste dei genitori morti.
Il seme del cece, con la sua forma caratteristica, tondeggiante e bernoccoluta ha ispirato tante metafore e modi dire. “Non sai tenere un cece in bocca” per chi non sa mantenere un segreto/confidenza. “Hai il cece nell’orecchio” si dice di un sordo, mentre quando si smarrisce qualcosa che non si riesce a trovare si ricorre all’espressione “è come trovare un cece in mare”.
Il fagiolo non era molto apprezzato nell’antichità. Infatti Ateneo lo cita insieme con la fava ed il fico secco come alimento degno degli Spartani e Virgilio nelle Georgiche lo definiva, “vile” vale a dire comune e di poco pregio.
Le lenticchie, come, d’altronde, le fave, hanno ispirato simboli, usanze e proverbi diversi. Il simbolismo più popolare è quello del “piatto di lenticchie”, ispirato dalla Genesi, dove si narra che Giacobbe aveva cucinato una minestra di questi legumi, quando, all’improvviso, arrivò Esaù affamato ed esausto dopo una lunga giornata di lavoro e chiese al fratello di servirgli un piatto di quel bendidio di minestra rossa. Giacobbe accettò, ma chiese ad Esaù di vendergli il suo diritto di primogenitura. Di qui il detto/proverbio: “vendersi per un piatto di lenticchie”. Però c’è anche il rovescio della medaglia. Nel cenone di San Silvestro, per fine anno, c’è la tradizione di consumare zuppa di leticchie e zampone, nella convinzione che le lenticchie assicurino denari e, quindi, ricchezza.
Il pisello è una pianta erbacea, originaria del bacino del Mediterraneo e dell’Asia Occidentale. Sullo stelo sbocciano fiori bianchi, giallo chiaro, verdastri o violacei e maturano baccelli a forma di mezzaluna, prima appiattiti e poi cilindrici, che contengono semi tondeggianti e molto nutrienti ricchi di sali minerali, fosforo e vitamine, molte favole hanno come protagoniste il pisello. Tra le più note c’è quella di Andersen “la principessa sul pisello”.
La cicerchia è un legume appartenente alla famiglia delle fabaceae, diffusamente coltivato per il consumo umano in Asia, Africa orientale e limitatamente anche in Europa ed in altre zone. È una coltura particolarmente importante in aree tendenti alla siccità ed alla carestia. E per finire la proposta di un gustoso primo piatto a base di cicerchie, ideale da completare con un filo di olio extravergine a crudo e fette di pane tostato. Elemento principale in questa zuppa sono appunto le cicerchie, legumi ricchi di proteine e apparentemente molto simili ai ceci, ma con un sapore più delicato; completano questa ricetta un soffritto di sedano e cipolla e l’aggiunta di patate e pomodoro. La zuppa di cicerchie viene infine aromatizzata da un mazzetto composto da rosmarino e salvia. Preparare questa zuppa è semplice, ma richiede tempo: sono necessarie, infatti, circa due ore solo per la cottura delle cicerchie. Il consumo di questa pianta leguminosa in Italia è limitato ad alcune aree del centro-sud ed è in costante declino. Ma in compenso è saporitissima la zuppa con questi semi. Così come è da incanto lo spettacolo della fioritura delle cicerchie, come, d’altra parte, quella di un faveto con i fiori bianchi virginei pezzati di nero. Dell’una e dell’altra (zuppa/minestra e fioritura) ho tenero ricordo e lancinante nostalgia. Oh la dolcezza della poesia dell’infanzia lontana!