«I have a dream».
«Ho un sogno: che un giorno questa nazione si sollevi e viva appieno il vero significato del suo credo: “Riteniamo queste verità di per sé evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali”»
Questo è quanto diceva Martin Luther King il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington al termine di una marcia di protesta per i diritti civili nota come la marcia su Washington per il lavoro e la libertà. Presidente degli Stati Uniti d’America era John Fitzgerald Kennedy, il Presidente democratico del “sogno americano”.
E continuava, Martin Luther King: «Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione».
Sono trascorsi 57 anni da quel caldo agosto di Washington e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: le prepotenze, le sopraffazioni contro i neri non sono finite, la vita di un nero sembra valere 20 dollari, poco più di 20 euro. E oggi il grido che risuona non è più «I have a dream», ma «I can’t breathe», «Non riesco a respirare», il grido di George Floyd schiacciato dal ginocchio del poliziotto a Minneapolis.
Un evento storico quello di Martin Luther King, un avvenimento di cronaca di questi giorni quello di Floyd. Due momenti che hanno come protagonismo quella contrapposizione tra bianchi e neri che da oltre 150 anni in America è motivo di tensioni, di marce silenziose, di sit-in pacifici, di scontri violenti, come quelli di questi giorni dove la violenza, bianca o nera che sia, è soltanto il vertice di un malessere che cova da decenni per l’ingiustizia diffusa, la sopraffazione di razza imperante. La storia ci insegna che periodicamente l’umanità partorisce un uomo con baffetti sotto il naso e ciuffo di capelli ravviato verso la sinistra della fronte, o un uomo con grandi baffi e un sorriso raggelante come il freddo della Siberia.
E in quel suo discorso Martin Luther King ricordava che il sogno di libertà deve «procedere verso la giusta meta senza macchiarci di azioni ingiuste. Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento».
Percorsi sognati, mai attuati: la violenza sembra sempre prevalere. E si ricorre all’abbattimento di statue-simbolo, come se questi gesti bastassero a cambiare una cultura sciale, bastassero a cambiare le coscienze. Lungo è il cammino verso quel sogno in cui «gli uomini si rizzeranno in piedi e si renderanno conto di essere stati creati per vivere come fratelli». Intanto, oggi, sembra che non solo il sogno il Martin Luther King sia stato sepolto, ma addirittura lo sia il “sogno americano”.
Il mondo, intanto, vi è una violenza diffusa, razziale, politica, sociale. Le furiose proteste in atto in questi giorni in America, nazione che si erge a simbolo di libertà e democrazia, e in altre nazioni del mondo occidentale, sono il pretesto di un diffuso malessere umano. E la mente corre ai tanti conflitti dimenticati dove giovani, anziani, donne, bambini muoiono ogni giorno nella colpevole e diffusa ignoranza universale; e ancora alle periferie delle nostre città opulente (non una volta, ma oggi) un popolo di emarginati, dimenticati vive sotto ponti, e chiede un pasto caldo alla carità di quanti, per fortuna non pochi, si dedicano alla loro assistenza. E non bisogna andare lontano. A Milano, cuore ricco dell’Italia, nel centralissimo Corso Vittorio Emanuele decine di “emarginati” si trascinano dietro una valigia mal ridotta o una sacca, parvenza di un guardaroba ambulante, cuscino ogni sera per poggiare il capo al riparo di un colonnato, di una tettoia. E ancora: la mente corre ai tanti disperati senza nome che il mare inghiotte quotidianamente mentre nei loro occhi vi è una piccola luce di speranza di un diverso vivere. E si potrebbe continuare all’infinito: la cronaca quotidiana ci rimanda con puntuale esasperazione il dolore degli altri. Anche questo è razzismo, intolleranza di una parte “bene-stante”, piccola, verso una maggioranza “dis-agiata”, sparsa ovunque .
Gandhi nei suoi discorsi per una rivoluzione pacifica diceva: «Ci sono cose per cui sono disposto a morire, ma non ce ne è nessuna per cui sarei disposto a uccidere». Principio scartato, stracciato, colpevolmente buttato nel dimenticatoio sociale.
Si dirà: pensieri di altri tempi, questi, ma sui quali dovremmo ritornare con la mente e l’anima, meditando la profondità di parole che restano scolpite sulla pietra del tempo a monito per chi vuole leggerle e per chi vorrebbe volutamente ignorarle. Con una lucida analisi Albert Einstein di Gandhi disse: «Forse le generazioni a venire crederanno a fatica che un individuo in carne e ossa come questo abbia camminato su questa terra».
La pandemia di questi mesi ha creato un altro leit-motiv: “bisogna cambiare, perché non è più come prima”. E sorge spontanea la domanda: quanti credono in questo? Decisamente una minoranza, che non contempla governanti, benestanti, manager, capitani di imprese, quella schiera di soliti ignoti che predicano bene, ma razzolano male e chi più ne ha più ne metta. Forse gli unici ad aver capito, ma soprattutto a sperare che veramente tutto possa cambiare (in meglio per tutti e non certamente in peggio come alcuni segnali fanno intravedere) è la gente semplice, quella della quotidianità difficile, che vive a stento fino a fine mese, quella che con estrema dignità affronta anche la povertà.
Ci si chiederà: perché scrivere questa nota?
Perché siamo contro le cattiverie verso gli altri, perché siamo convinti che tutti un uomo, di qualsiasi colore, religione, fede politica, in qualsiasi latitudine si trovi, che un uomo, semplicemente, benedettamente uomo, una donna, un bambino, un anziano, ha ovunque gli stessi diritti dell’altro.
A chiusura di questi “pensieri in libertà” piace ricordare ciò che diceva Gandhi: «Io e te siamo una sola cosa: non posso farti male senza ferirmi».
Vito Pinto