Nel ripercorrere la strada dei ricordi, ne affiorano di belli e gioiosi ma anche di molto dolorosi. Riemerge quel nodo alla gola che mi coglieva quando bisognava lasciare la famiglia per andare a “chiudersi” all’inizio dell’anno. Torna veemente l’ansia di quando cercavo, ancora bambino, di superare gli alti vetri delle camerate per potere lanciare uno sguardo fuori, per immaginarmi libero in mezzo ai miei ex compagni delle scuole elementari. Rivivo il forte desiderio di libertà che, confuso con la naturale curiosità dell’età, mi spingevo all’esplorazione di tutto il Seminario; appartamento del Vescovo compreso. Sapevo, ero cosciente di fare qualcosa di non permesso ma in quel modo, almeno in parte, riuscivo a placare la mia agitazione. Ero cresciuto libero, in un paese che mi aveva permesso il contatto diretto con la natura, con il fiume, con la montagna. Una ambientazione naturale che mi aveva visto protagonista fin dalla più tenera età: obbligavo mio nonno a farmi montare tutti gli asini del paese; partivo, con altri compagni, per delle spedizioni fluviali risalendo le sponde del fiume in battute di pesca; con gli amici, si campeggiava, nel periodo estivo, sul Monte Gelbison, si viveva notte e giorno all’aria aperta. Ero libero, un piccolo selvaggio amante della strada con tutte le sue sfumature ma nello stesso tempo aiutavo mio padre nella sua officina di autoriparazioni di gomme. Fu là che un prete cominciò ad interessarsi a me, a sollecitarmi nel provare l’esperienza del Seminario, a convincere mia madre che suo figlio doveva studiare e, forse, diventare prete. Era Don Alfredo Renna. Mio padre accondiscese, credo per tirarmi via dalla strada, per frenare la mia esuberanza. Entrai in un nuovo mondo, fatto di ordine, precisione, regole severe e poco permissive. Un impatto forte. Lo studio, cinque ore la mattina e quattro pomeridiane, il freddo della camerata, il gelo dell’acqua per lavarsi, la qualità del cibo, il tempo dedicato all’anima e quello che rimaneva per una passeggiata pomeridiana, una mezz’ora di ricreazione, una partita di pallone domenicale accompagnata, non sempre, dalla visione di un film, a tema ben definito. E poi le punizioni che, sebbene non strettamente corporali, influivano sullo spirito; come l’umiliazione di mangiare in ginocchio, di essere privato della visione del film o anche della passeggiata. Cose che pesavano sull’anima di un ragazzino di 10/11 anni ancora immaturo e alla ricerca di un’identità… Da non dimenticare gli altri, i compagni. Ognuno portatore delle sue problematiche, delle sue preoccupazioni, dei suoi timori ma tutti obbligati a confrontarsi con l’altro, ad imparare a convivere nel rispetto reciproco reprimendo quell’istinto di strada che spinge ad usare solo la forza. Una grande difficoltà anche questa. Oggi so, con certezza, che tutti questi sentimenti, questi stati d’animo erano generali e che hanno pervaso tutti, indistintamente. Sono anche convinto che quella esperienza di vita non abbia prodotto identici risultati. Una grande, incomparabile palestra di vita per i molti che, forgiati anzitempo, hanno saputo affrontare meglio la vita. Molti hanno avuto successo sapendosi collocare in modo ottimale, diventando classe dirigente. Non sono sicuro che tutti abbiano vissuto positivamente quella esperienza giovanile ma, sicuramente, tutti ne hanno avuto vantaggi, fosse solo, perché già preparati ad affrontare le difficoltà dello studio in sé. Non ricordo perché decisi di lasciare il Seminario, forse per le difficoltà economiche della mia famiglia che non poteva continuare a pagare la retta. Forse… Di certo ho continuato gli studi grazie alla buona preparazione di base che, in parte, mi ha consentito di vivere di rendita fino al raggiungimento della laurea. la disciplina, il metodo e l’educazione ricevuti sono state pietre miliari in tutte le manifestazioni della mia vita, non dico di avere fatto cose buone, anzi; dico che di fondo ho espresso sempre l’impegno a fare le cose nel migliore dei modi, così come mi avevano insegnato. Educare, formare un giovane è mestiere difficilissimo. Sono padre di tre ragazzi, tutti maggiorenni, e non posso disconoscere di avere, almeno in parte, tentato di replicare il metodo. La difficoltà più grande è stata nell’essere il maestro. Di sicuro non sono stato all’altezza dei quei professori che hanno insegnato a me. Come eguagliare lo spessore culturale di alcuni o la grande ricchezza interiore di altri? Certo, a mio modesto giudizio, non sono stati tutti bravi nel compito di educatori. Io comunque esprimo un giudizio altamente positivo della mia esperienza di seminarista e non la rinnego. Ritengo di essere stato fortunato, di avere ricevuto buoni insegnamenti in un momento particolarmente importante della vita di un ragazzo. Ho avuto opportunità di leggere il testamento di Don Rocco: manifesta amarezza per non avere potuto istituire una borsa di studio per un giovane in disagiate condizioni. Sono convinto che l’idea potrebbe concretizzarsi con l’impegno serio di molti noi ex-seminaristi. Non è giusto da parte nostra, ex seminaristi, raccogliere queste volontà e dargli concretezza? Abbiamo ricevuto, è giusto dare.
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