Ciao Denis, cosa si prova suonare per un grande pubblico con artisti affermati che, hanno fatto la storia della musica italiana?
Ciao Angelo. Innanzitutto bisogna dire che, almeno per quanto mi riguarda, l’emozione è sempre presente fino ad un attimo prima di suonare la prima nota. Agli inizi di queste numerose collaborazioni è stato straniante soprattutto l’effetto che fa sentire negli auricolari o nel monitor la stessa voce dei dischi su cui suonavo fin da ragazzino, con la differenza che in quel momento, sul palco, il motore delle canzoni era affidato a me. Tra le emozioni più forti sicuramente da ricordare Ron, Zarrillo, Roby Facchinetti, Nomadi, Enzo Gragnaniello…
Hai iniziato da giovanissimo a collaborare con il compianto Dott. Aniello De Vita, icona storica del cantautorato cilentano e autore dell’inno “so’ nato a lo Ciliento… e me ne vanto”, seguendolo anche negli States diverso tempo fa. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Parlare del Dottore mi fa sempre un effetto strano. Per quanto assurdo possa apparire, mi sembra sempre che sia ancora qui e spesso (tra l’altro ho scoperto di non essere l’unico a farlo) quando devo prendere qualche decisione importante, cerco di pensare a quello che lui mi avrebbe consigliato. Ha conosciuto me e mio fratello Francesco una sera del 1989 in cui suonavamo per un festival locale al “Magna Graecia” di Ascea marina. Io al tamburello e mio fratello all’organetto. Senza contare che poi venne a lavorare all’allora U.S.L. di Agropoli che si trovava praticamente difronte casa nostra. In pratica è stato sempre presente dai miei cinque anni in poi.
Aniello De Vita mi ha lasciato un grande senso dell’onestà, del rispetto per la propria figura professionale e tantissima curiosità.
Che cosa resta al Cilento oggi, della figura artistica di Aniello De Vita? Abbiamo un suo erede?
Dal mio punto di vista lascia una mole importante di musica d’autore che in pochi si sono presi la briga di approfondire davvero, andando al di là delle canzoni più conosciute. Bisogna tenere conto che quando lui ha iniziato a fare dischi con determinate e ricercate sonorità negli anni ’70, veniva visto quasi come un visionario. Un medico che si mette a cantare in cilentano? Eppure ha dimostrato quale fosse il suo obiettivo. Di erede in senso sia artistico che di DNA c’è quello che tutti conosciamo, Angelo Loia. Angelo ha avuto il pregio di non accontentarsi di eseguire semplicemente le canzoni di suo zio Aniello ma le ha reinventate, rielaborate e, in alcuni casi, rivalorizzate. Altri eredi? Tutte le persone di questo territorio che si sentono ispirati a scrivere una canzone, che sia in lingua dialettale o italiana. In fondo Aniello De Vita era un compositore di melodie e molto spesso anche cantautore, non strettamente e necessariamente legate al folklore, senza nulla togliere a quest’ultimo.
Sei un musicista versatile, sia come session man live-studio, sia come autore. Come si diventa così poliedrici? Che cosa consigli alle nuove generazioni che si affacciano per la prima volta nel panorama musicale, per sviluppare una visione così ampia e sensibile?
A questo davvero non saprei rispondere in modo esaustivo. Ho una mia idea e provo ad esporla. Credo che la versatilità dipenda molto da due fattori: predisposizione genetica e la fortuna di avere una famiglia di ampie vedute. Sono cresciuto in una famiglia di musicisti in cui si passava in un solo giorno dall’ascolto delle zampogne e ciaramelle costruite da mio nonno e mio padre, alla musica classica studiata da mio fratello con la fisarmonica, poi il liscio, il folk con l’organetto e tantissima musica leggera continuamente ascoltata in casa, in macchina o nel negozio dei miei genitori.
Per quanto riguarda la scrittura… diciamo che ho avuto la fortuna di avere una madre che ama moltissimo leggere, per cui in casa avevo a disposizione centinaia di libri che ho iniziato a leggere già dai cinque anni. Negli anni ho definito i miei gusti e piano piano ho provato a scrivere canzoni che è la forma di scrittura che preferisco, probabilmente per abitudine d’ascolto. Sono brevi, dirette, con poco puoi dire tantissimo e soprattutto sono interpretabili. Ognuno può trovarci quello che cerca. Quindi credo che il miglior consiglio possa essere un po’ la scoperta dell’acqua calda, più viene nutrita la tua mente fin da bambino e più cose ti ritroverai ad apprezzare.
Chi in Italia lavora con la musica, soffre di una mancata agevolazione in termini di riconoscimento e inserimento nel mondo del lavoro. In coincidenza alle passate chiusure per la pandemia, nella rete si è aperto un dibattito piuttosto confusionale sulla categoria. La mia domanda è rivolta a te che seriamente e da sempre svolgi questo mestiere. Che cosa andrebbe fatto e subito per apportare dei miglioramenti?
Premesso che anch’io come tutti mi sono ritrovato nell’occhio del ciclone, quello che posso dire è che sicuramente questa situazione ha fatto capire quale fosse il nervo scoperto del mestiere di artista. Praticamente non esistiamo e, se esistiamo, è solo per giustificare serate per le quali, tra tanti anni, non percepiremo praticamente nulla. Sarebbe giusto un albo? Sarebbe giusto formare tante piccole associazioni? Non lo so. Se è confuso lo stato figurati io.
Il 4 novembre di quest’anno, il Comune di Agropoli, ha conferito la cittadinanza onoraria ad un artista con il quale tu collabori da anni, Michele Pecora. In questa occasione, insieme a tuo fratello Francesco, avete partecipato alla cerimonia, suonando con Michele. Cosa estrai, in termini umani e professionali dal rapporto collaborativo con Michele?
Innanzitutto sono felice per Michele, perché questo riconoscimento gli era dovuto e per certi versi atteso da un po’. Il rapporto umano con Michele non può essere separato dal rapporto professionale, perché è un artista sincero e “puro”, per cui avere a che fare con l’uomo, nel suo caso, significa anche avere a che fare con l’artista. A lui devo praticamente le esperienze e le collaborazioni più importanti della mia vita professionale e non solo. È un grande amico ed una persona che ha sempre creduto in me.